Lug 4, 2025 | L'editoriale

SERVE L’EUROPA?

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Si sente spesso ripetere che “bisogna cambiare l’Europa”, che “un’altra Europa è possibile”. Ma queste affermazioni, recitate quasi come slogan, nascondono una verità scomoda: l’Europa così com’è oggi non serve. Non promuove lo sviluppo economico né quello sostenibile, non è all’avanguardia in scienza o tecnologia, non combatte efficacemente le disuguaglianze e non emancipa il lavoro. La mia risposta a queste domande fondamentali è semplice e ponderata: no, l’Europa attuale non serve.

Non basta un cambiamento istituzionale. Serve un profondo ripensamento politico. L’Europa si ostina a riconoscersi nell’“Occidente”, ma l’Occidente come entità geopolitica e culturale non esiste più. Il mondo non è più quello di Yalta. Oggi contano i rapporti multipolari, multilaterali, come quelli che propongono i BRICS. L’Europa deve reinventarsi come attore globale aperto, e questo è anche il compito della sinistra: pensarsi non chiusa dentro i confini di Bruxelles, ma parte di un mondo che cambia.

L’esperienza concreta degli ultimi 25 anni — quella dell’euro — è statafallimentare. L’Europa delle origini, nata come mercato unico e zona di libero scambio, si fondava sulla tutela della concorrenza, una versione continentale della globalizzazione liberista. Ma così ha depresso le economie a forte intensità di lavoro, come quella italiana. Con l’euro, l’Italia ha perso la flessibilità del cambio e ha dovuto competere solo sulla produttività. Risultato: compressione dei salari, crisi del lavoro, perdita di competitività.

Chi guidò questa trasformazione, come Romano Prodi, non fu mosso da un grande disegno politico, ma da una fiducia tutta tecnica in una moneta stabile e forte, secondo il modello tedesco. Peccato che il mondo stesse già cambiando. Le crisi finanziarie globali, fino alla pandemia, hanno imposto il ritorno dell’intervento pubblico e delle banche centrali. La BCE ha evitato il collasso dell’eurozona, ma non ha rilanciato l’economia.

Il PNRR, nato per reagire alla crisi da Covid, ha mostrato tutti i limiti dell’Europa: nessuna regia comune, pochi indirizzi strategici, molta frammentazione tra Stati e regioni. Un’occasione sprecata, o quanto meno ridotta a una montagna che ha partorito un topolino.

Anche il Green Deal èlo specchio di un fallimento. Senza un sistema energetico davvero verde, ogni fase della produzione continua a emettere carbonio. La transizione ecologica è stata affidata ai cittadini, scaricando su di loro i costi della maggiore efficienza. Un approccio regressivo che ha colpito le fasce popolari e generato proteste. Invece di investire in tecnologie di frontiera (fotovoltaico ad alta efficienza, batterie intelligenti, conduttori superconduttivi), l’Europa si è persa nei dettagli, lasciando che la lotta al cambiamento climatico diventasse un nuovo terreno di disuguaglianza sociale.

E mentre l’Europa si incarta in riforme inefficaci, trova improvvisamente 800 miliardi per il riarmo in chiave anti-russa. Un’iniziativa che ha allontanato non solo  un partner energetico e culturale strategico, la Russia, per assecondare un’agenda geopolitica dettata da altri. Ci siamo inventati un nemico che, se lo fosse davvero, ci annienterebbe in un attimo. E lo abbiamo fatto per accogliere paesi baltici che, storicamente e culturalmente, poco hanno da spartire con l’idea di Europa condivisa.

Il risultato è un’Europa vecchia, divisa, frammentata. Il welfare è disomogeneo, i diritti di cittadinanza sono discontinui, l’immigrazione è necessaria ma osteggiata. A tutto ciò si somma un nuovo spettro: la Germania, che non è riuscita a guidare la pace e ora sembra voler guidare la guerra.

Intanto, gli Stati Uniti chiudono i mercati con dazi, ci impongono l’ombrello NATO a nostre spese, e l’Europa continua a voltarsi ostinatamente a Ovest, inseguendo un’identità occidentale che non le appartiene più. In questo contesto, l’Olanda e l’Italia sono emblemi di un’incompatibilità interna all’Unione. Mentre il mondo chiede di preservare la biodiversità, l’Olanda si impone con i semi geneticamente modificati, gli allevamenti industriali, e una destra tra le più xenofobe d’Europa.

Anche la logistica svela le contraddizioni europee: il traffico da Suez, che naturalmente dovrebbe attraversare l’Italia per raggiungere l’Atlantico, preferisce aggirare la penisola e puntare su Rotterdam, a causa delle inefficienze delle reti europee.

La verità è che l’Europa non ha una politica di sviluppo comune. Il potere del capitalismo finanziario americano è ancora fortissimo e molti leader europei ne sono espressione. Così si punta sull’unificazione bellica, mentre si dovrebbe puntare sulla cooperazione e sullo sviluppo.

L’Europa, oggi, non serve. Serve una nuova direzione, un nuovo programma, una nuova visione. Non dobbiamo accontentarci di gestire la stagnazione. Dobbiamo guardare a Oriente, dove ci sono opportunità reali: economie dinamiche, alleanze paritarie, investimenti in infrastrutture fisiche e digitali, sviluppo guidato dall’intelligenza artificiale e dalla tecnologia.

La sinistra del nostro Paese dovrebbe smettere di guardare solo a Bruxelles e iniziare a costruire relazioni globali fondate su cooperazione, progresso tecnologico e sviluppo condiviso. È il momento di una “mossa del cavallo”: uscire dagli schemi, abbandonare l’inerzia, e ridisegnare il nostro futuro non come satelliti dell’Occidente, ma come protagonisti di un nuovo mondo multipolare.

Come Colombo voleva andare a Oriente passando per l’Ovest, noi dobbiamo andare a Oriente davvero, con il coraggio dei grandi viaggiatori veneziani. Ma questa volta, passando per l’Oriente.

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