Ott 19, 2025 | Articoli

REGIONALI, LE DESTRE TENGONO: ORA SERVE UN’IDENTITA’ PIU’ NETTA.

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Nessuna drammatizzazione. Ma non sono utili analisi consolatorie dei risultati della coalizione progressista nel voto regionale. Le elezioni, ancora una volta senza popolo, vinte in Toscana sono state il 14* appuntamento regionale (senza contare Val d’Aosta e Trento e Bolzano) svoltosi dopo l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. È vero che i “ribaltoni” sono stati 2 (Sardegna e Umbria) a 1 (Lazio) a favore dell’alleanza Pd – M5S – AVS e centristi. Vero anche che le Regionali sono diventate il terreno più sfavorevole per tale schieramento: qui, in media, oltre 2/3 dell’elettorato ‘politico’ del M5S rimane in larga parte a casa, oppure, soprattutto nel Mezzogiorno, indipendentemente dal colore del presidente uscente, esprime un ‘voto di riconoscenza e prenotazione’ alla filiera incardinata nelle istituzioni dotate anche della più modesta risorsa economica.
Tuttavia il segno è chiaro: dopo tre anni di governo delle destre, il blocco FdI-Lega-FI-Moderati non si espande, ma tiene bene in un generale rattrippimento dell’affluenza.

Il centrosinistra, invece, conferma i suoi limiti di insediamento sociale. Non riesce a recuperare l’emorragia del M5S.
Non intercetta la domanda di politica pur viva, come reso evidente dalle oceaniche mobilitazioni innescate dal martirio del popolo palestinese.
Non siamo di fronte soltanto a difficoltà nostrane e congiunturali.
Certo, per il M5S si impone un nodo specifico: può continuare a essere un soggetto di primaria rilevanza nazionale senza adeguate radici e classi dirigenti territoriali?
Ma è da affrontare la questione di fondo, presente ovunque nel malmesso Occidente, comune a tutti i protagonisti del versante progressista: da tempo siamo entrati in un’altra stagione della Storia.
Dominano le domande di protezione sociale e identitaria, nel vuoto di legami comunitari e solitudini social.
È assillante la ricerca di senso. È un’emergenza finanche antropologica originata dalla tecnica e dalla violenza insita nel mercato globale ed europeo.
Ma l’egemonia liberista ‘no limit’ e ‘no border’ nell’area progressista allunga la distanza dalle fasce sociali più in difficoltà, le più lontane dalle urne.

Sono sterili le invocazioni iper-politiciste sull’
allargamento del “campo”. Da un lato, è constatazione aritmetica, non politica, la necessità del M5S. Dall’altro, va preso atto dell’utilità condizionata dell’apporto elettorale di culture e personalità “moderate”: dipende dalla loro capacità di riconoscere l’insostenibilità sociale, ambientale, spirituale della regolazione neoliberista e delle agende tecnocratiche da essa derivate.

Dobbiamo guardare in faccia la realtà: per riconquistare l’ “amato popolo” (Antonio Cantaro), va coltivata una cultura politica radicalmente umanista e rideclinato l’asse nazionale-sovranazionale dell’impianto di ‘policy’.
È un lavoro di lunga lena. Ma decisivo.
È urgente smontare la sempre più spinta deriva europea di ‘warfare’.
Prospettare schemi alternativi all’ingresso nell’Ue di Ucraina, Georgia, Moldavia, Balcani.
Estendere ancora implica rinunciare alla soggettività politica dell’Unione e aggravare il ‘dumping’ salariale e fiscale, quindi moltiplicare le disuguaglianze e l’impoverimento del lavoro.
Un’area progressista imprigionata nella lettura della Russia come “minaccia esistenziale” non è credibile nella proposta di rigenerazione del ‘welfare’.
Non può esprimere alcuna significativa alternatività. Non riconquista né i settori sociali perduti, né le generazioni più giovani in piazza.
La meta, qui, dovrebbe essere un ordine internazionale multilaterale, espressione fedele del pianeta multipolare, dove l’Europa è ponte, in primis verso Est.
Rimanere ancillari a Washington e al tentativo di resistere al tramonto del secolo americano consegna i progressisti all’ irrilevanza.

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