di Linda Santilli

Altri giornalisti uccisi a Gaza. Siamo a quota 270? 300? Abbiamo perso il conto ma sappiamo che questa guerra è diventata il conflitto più mortale per giornalisti nella storia moderna.
Ciò che oggi preoccupa Israele non è solo Hamas, che con gli orrori del genocidio non può che ingrossare le proprie fila, ma le notizie che riescono a trapelare su quanto sta accadendo. I racconti, supportati da immagini puntuali e incontrovertibili del massacro in corso, sono diventati insopportabili per chi vuole mantenere il controllo assoluto della narrazione.
Il dominio quasi totale sui media non basta più a contenere la verità. Il timore che l’opinione pubblica internazionale, dopo il 7 ottobre, si stia lentamente sgretolando è reale. E questo potrebbe compromettere anche solo in parte il compimento del progetto di Netanyahu di cancellare il popolo palestinese.
Da qui la decisione brutale di eliminare più giornalisti possibile per soffocare sul nascere ogni testimonianza scomoda.
In una scena non illuminata, le tracce dell’assassino si confondono col buio della notte e col silenzio.
Eppure il divieto d’accesso ai giornalisti stranieri nella Striscia non ha suscitato nessuna sollevazione da parte della grande stampa internazionale. Nessuno o quasi si è indignato facendo la voce grossa per il massacro sistematico dei giornalisti palestinesi. I giornalisti e le giornaliste dei pricipali canali dove le notizie vengono imbastite per addomesticare il gregge hanno solo accennato, detto qualcosa con prudenza. Il più delle volte la mancanza di testimoni indipendenti viene strumentalizzata per screditare le notizie che arrivano dai Territori, in piena complicità con la disinformazione organizzata da governo, esercito e servizi israeliani. Una macchina ben finanziata che lavora anche con l’arma del ricatto.
In un’epoca in cui le guerre si combattono a colpi di narrazione, il giornalismo non è mai stato così essenziale e così pericoloso. Non sarà un caso che a casa nostra le redazioni vanno a colpi di censura e di esclusione verso chi sente l’obbligo di chiamare le cose con il proprio nome. Qui è censura. A Gaza vieni ucciso.
Lì non si sta solo uccidendo un popolo. Si sta demolendo sistematicamente la libertà di stampa. Si fa pulizia dell’informazione uccidendo chi ha il coraggio della verità.
E il silenzio della stampa internazionale è diventato complicità. Non indignarsi è una scelta, come lo è non protestare. Chi oggi resta in silenzio per tutelare il proprio ruolo o il proprio privilegio, domani non potrà dirsi sorpreso se la verità prenderà il sopravvento, e questo accadrà presto.
Non si tratta di “scegliere una parte” ma di difendere il diritto collettivo a sapere. Senza giornalisti indipendenti ogni crimine può essere nascosto, ogni vittima cancellata.
Se il giornalismo viene messo a tacere a Gaza, allora nessuno è più al sicuro. Perché un mondo in cui la verità può essere soppressa è un mondo in cui nessuna democrazia è reale e se questo è ciò che sta accadendo, è ora di smetterla di chiamarla tale.
Basta anche con l’arroganza di chi dall’evoluto occidente pretende di dare lezioni al mondo col ditino alzato.
Se è finito il tempo della ragione e del buon senso, è finito anche il tempo della prudenza.
Non c’è più nulla di disumano che possa ancora succedere.
All’orrore bisogna rispondere solo con coraggio e veemenza.
Come si fa ce lo sta insegnando la Global Sumud Flotilla, non certo le istituzioni.
È il tempo del coraggio, proprio così. Di chi racconta, di chi agisce e di chi non si arrende all’idea che la verità possa essere assassinata nel silenzio.
È il tempo del coraggio della verità, costi quel che costi.

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