di Carlo Paolini
A una settimana di distanza dal vertice in Alaska tra Trump e Putin è possibile cogliere la portata di alcuni elementi emersi subito ed altri aspetti che stanno emergendo in questi giorni.
La coreografia dell’incontro (dal luogo prescelto, al tappeto rosso, dalle strette di mano, alla conferenza stampa congiunta) ha avuto un forte valore simbolico e si sa che in politica i simboli sono importanti.
Il significato di quei simboli enfatizzava il fatto stesso che stava accadendo: la ripresa di un dialogo ufficiale al massimo livello tra le due maggiori potenze militari mondiali dopo l’assenza di incontri degli ultimi anni.
Dal 2022 con l’intervento russo in Ucraina non solo erano cessati i rapporti, ma da parte dell’Occidente c’era un crescendo di dichiarazioni ostili fino alla criminalizzazione della figura di Putin e il rifiuto da parte occidentale di aprire trattative fino al sabotaggio degli incontri di Istanbul.
Lo scontro sul piano ideologico non è stato meno violento di quello sul campo di battaglia e sono venute meno quelle regole della diplomazia internazionale che solitamente si mantengono anche in stato di guerra. Le preoccupazioni del mondo per una possibile escalation senza limite del conflitto che si combatteva in Ucraina tra le due grandi potenze, erano ben fondate.
L’incontro in Alaska rappresenta, non la fine della guerra in Ucraina e la soluzione dei conflitti aperti nel mondo, ma l’inversione di una tendenza pericolosa, la ripresa del dialogo tra Stati che si riconoscono reciprocamente, un primo segno di distensione.
Si può ben ragionare sulle cause che hanno portato a questo primo cambiamento: dalla evoluzione dei rapporti di forza sul campo alle strategie geopolitiche, dagli interessi economici alla soggettività dei leader. Ma qui preme sottolineare il tratto oggettivo prevalente prima di aprire una complessa valutazione delle motivazioni.
L’ altro fatto oggettivo che si è registrato è l’assenza di ruolo dell Europa prima, durante e dopo il vertice. O, meglio, l’Europa si è dichiarata preoccupata per quell’ incontro, non ne ha visto le potenzialità positive, sta cercando di smorzarne gli effetti in nome di una presunta linea di coerenza ad oltranza a sostegno dell’ Ucraina, agitando una inesistente minaccia della Russia a tutta l’Europa.
L’ Europa si mostra chiusa e refrattaria a ricercare una pace duratura, a misurarsi con l’evoluzione degli eventi bellici in Ucraina, a valorizzare il nuovo dialogo tra Usa e Russia, a considerare gli orientamenti prevalenti nel resto del mondo, a prevenire le conseguenze economiche devastanti della guerra per le economie e per i rapporti sociali al suo interno, a fermare i conflitti aperti in Medio Oriente partendo dalla Palestina dove è in atto non una guerra ma un genocidio.
Anche in questo caso si deve ragionare sulle cause di tanta miopia e ostinazione autolesionistica ma qui preme sottolineare l’assenza dannosa dei paesi europei.
In questo quadro se non avvengono significative svolte nella politica europea, è probabile che la guerra si protrarrà ancora per un pò fino al definitivo collasso dell’Ucraina, che gli Usa si defileranno da un impegno diretto lasciando costi e responsabilità sulle spalle dell’Europa e che l’ Europa stessa si ritroverà sconfitta e marginalizzata sulla scena internazionale e scossa all’ interno da crisi economiche e sociali.
Sul piano politico una parte significativa della sinistra europea non solo non ha contrastato questa deriva ma l’ha favorita, ripetendo, con le ovvie differenze storiche, gli errori tragici del 1914. Quella parte di sinistra che ha visto da subito rischi e disastri di una scelta bellicista dovrebbe passare dalla denuncia all’azione per una politica di pace e di equità in un mondo non più segnato dall’egemonia di un’unica grande potenza.


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