Dic 11, 2025 | Articoli, In evidenza

L’UNITÀ PROGRESSISTA VA FATTA CONTRO L’ECONOMIA DI GUERRA

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La conclusione del lungo ciclo delle elezioni regionali con la vittoria netta in Campania e in Puglia ha riacceso la fiducia nell’area progressista: si afferma la prospettiva dell’alleanza, condizione necessaria, data la vigente legge elettorale, per arrivare a palazzo Chigi.
È tornato evidente un detto noto, nonostante il suicidio politico di settembre 2022 dopo la rottura tra i partiti a sostegno del governo Conte-2.
Ora, quanti hanno lavorato a far saltare la linea “testardamente unitaria” della segreteria del Pd devono arrendersi ai numeri, come devono prendere atto delle potenzialità della coalizione progressista anche quanti nel M5S spiegavano la performance del Movimento con la distanza dal Pd.
Tuttavia, dalle 16 tappe alle urne delle Regioni, successive al debutto del governo Meloni, non è arrivata nessuna discontinuità positiva.
Anzi, da un lato, è sempre più drammatica la diserzione del voto popolare; dall’altro, è sempre più evidente la distanza del centrosinistra e del M5S dal profondo Nord, ovunque sopra il Po, non soltanto in Veneto.

Presa la via unitaria e registrati i limiti di connessioni sociali e territoriali, è stato da più parte giustamente invocato l’avvio del lavoro per il programma da proporre agli italiani fra un anno.
Indubbiamente, convergere sulle misure di riforma del fisco o del Servizio sanitario nazionale è di primaria rilevanza.
Ma è di gran lunga insufficiente a dare credibilità a un’offerta di governo.
La politica è tornata alla sua essenza di “Storia in atto”, nell’efficace lessico di Alfredo Reichlin.
Vanno affrontati innanzitutto i nodi di fase.
Non è il tempo del bricolage programmatico.
Domina, ancora una volta, l’asse nazionale-sovranazionale.
Il nesso fra i due versanti della politica è decisivo.
È il vincolo esterno, da coltivare attivamente: la partita politica interna si gioca sulla sua declinazione in relazione all’interesse generale
dell’Italia e agli interessi economici e sociali di lavoratori e piccole imprese da proteggere e promuovere.
In sintesi, la rivitalizzazione del welfare universalistico – dignità del lavoro, contrasto alle disuguaglianze e alla povertà, finanziamenti per la scuola pubblica, Sanità, pensioni, politiche industriali e investimenti per la conversione ecologica – è impraticabile in un’Europa orientata alla guerra permanente per affrontare la Russia “minaccia esistenziale” e ostinata ad allargare ulteriormente i confini dell’Unione all’Ucraina e agli altri otto Stati candidati a entrare.
La linea delle classi dirigenti mainstream alimenta nazionalismo e corporativismo, i cardini della cultura politica e dell’agenda delle destre.
Siamo a un passaggio cruciale.
I “leader” europei perseverano nell’ ostruzionismo al negoziato in corso tra Washington, Mosca e Kiev per la “fine dignitosa” della guerra.
Ostruzionismo senza alternativa.
È stato il segno anche della risoluzione, surreale, contraddittoria, approvata giovedì dal Parlamento di Strasburgo.
Ne è esempio l’insistenza sulla confisca degli asset russi custoditi in Ue per finanziare l’Ucraina nei prossimi due anni.
Nei giorni scorsi, il premier conservatore belga, Bart De Wever, l’ha esplicitato alla presidente Von der Leyen: “Procedere frettolosamente con il proposto schema di prestiti per le riparazioni avrebbe come danno collaterale il fatto che noi, in quanto Ue, stiamo di fatto impedendo il raggiungimento di un eventuale accordo di pace”.

Chi è impegnato per l’alternativa dovrebbe spingere il nostro e gli altri governi Ue e lavorare all’interno della proposta dell’Amministrazione Trump: innanzitutto, per potenziare le garanzie di sicurezza dell’Ucraina fuori dalla Nato e per un piano di aiuti economici alla ricostruzione senza ingresso di Kiev nell’Ue.
Altrimenti a Palazzo Chigi sarebbe, nel migliore dei casi, alternanza.

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