Misura per misura si ha l’impressione che mai come questa volta il governo abbia fatto il minimo indispensabile per seguire una rotta già tracciata, continuando a navigare a vista. Non curandosi del Paese reale, dell’economia che galleggia, del corpo sociale che nelle sue fasce più deboli soffre e fatica. E l’Italia, ormai ferma al capolinea, viene così lasciata affondare. L’approfondita analisi del prof. Pier Giorgio Ardeni
di Pier Giorgio Ardeni

Ora che la Legge di Bilancio 2026-2028 è finalmente approdata in Parlamento, per quanto più di una delle prescrizioni indicate saranno modificate di qui alla fine dell’anno, vale la pena dare una valutazione generale della manovra finanziaria proposta dal governo e dello stato della nostra finanza pubblica.
L’impressione generale è che mai come questa volta il governo abbia fatto il minimo indispensabile per seguire la rotta già tracciata, continuando a navigare a vista. Non curandosi così, davvero, del Paese reale, dell’economia che galleggia, del corpo sociale che nelle sue fasce più deboli soffre e fatica. E l’Italia, ormai ferma al capolinea, viene così lasciata affondare.
Dal quando il Governo Draghi ha approvato la sua ultima legge finanziaria -nel 2022, allorché furono messi a bilancio 1.096,5 miliardi di euro- la spesa pubblica totale, sotto il Governo Meloni, ha visto un leggero aumento nei primi due anni dai 1.144,8 miliardi del 2023 ai 1.229,7 del 2024, scendendo ai 1.199,5 miliardi del 2025 (qui guardiamo ai dati del bilancio di competenza, più che a quelli di cassa, per poterli poi confrontare con quelli della legge appena licenziata). In percentuale sul Prodotto interno lordo (Pil), la spesa pubblica è così scesa dal 54,9% del 2022 al 53,% del 2023, al 50,4% del 2024, fino al 50,8% (stimato) per il 2025, mantenendosi sempre almeno cinque punti sopra la media europea. Nel 2026 la stima è che la spesa si assesterà al 50,7% del Pil.
Una cospicua parte di quella spesa però -va ricordato- viene destinata al rimborso delle passività finanziarie (cioè, la restituzione di debito pregresso), ovvero 283,8 miliardi nel 2025, il 23,7% del totale, contro i 328,7 miliardi del 2024 (scesi, a consuntivo, a 319,1), il 27%. Il totale delle spese correnti e in conto capitale è stato quindi di 915,8 miliardi nel 2025 (contro gli 886,4 miliardi del 2024). Se, però, deduciamo il pagamento degli interessi dalle spese correnti, si ha che queste sono state pari a 809,5 miliardi nel 2025 (contro i 789,5 miliardi del 2024). E se, infine, consideriamo che parte delle spese è stata destinata all’accensione di nuovo debito (100,8 miliardi nel 2025 contro i 91,2 miliardi del 2024), si ha che la spesa “viva” ne 2025 è ammontata a 708,7 miliardi (contro i 698,2 miliardi del 2024). A conti fatti, quindi, il debito pubblico si è portato via il 32,1% della spesa pubblica totale nel 2025 (384,5 miliardi) contro il 34,6% del 2024 (419,9 miliardi).
La spesa pubblica nel 2026 dovrebbe raggiungere quota 1.231,2 miliardi, di cui 331,2 destinati al rimborso delle passività finanziarie e 105,5 a nuovo debito, per un totale di 436,7 miliardi (il 35,5% del totale della spesa) sottratti dal debito pubblico. Il debito totale lordo, che nel 2024 ha raggiunto i 2.988,9 miliardi di euro, cioè il 134,9% del Pil e nel 2025 dovrebbe raggiungere il 136,2%, salirà al 137,4% nel 2026. Con una spesa totale ridotta a 900 miliardi, di cui 111,2 destinati al pagamento degli interessi, avremo così una spesa effettiva di 788,8 miliardi per le spese correnti e in conto capitale, davvero magra se rapportata alle esigenze del nostro Paese.
Nell’ultima Legge di Bilancio approvata lo scorso 31 dicembre 2024 per l’anno che stiamo attraversando la spesa totale era stata ripartita, principalmente, tra le voci “trasferimenti agli enti locali” (149,6 miliardi, 3,7 in più dell’anno precedente), “previdenza” (122,5, -12,6), “politiche economiche” (121,5, +2,6), “competitività e sviluppo imprese” (78,3, +14,7), “spese sociali” (66,2, +3), “istruzione scolastica” (56,8, +4,7), “cooperazione europea e internazionale” (38,4, +5,9) e “difesa” (31, +1,9), “fondi da ripartire” (21,6, -1,9), “politiche per il lavoro” (17,6, nessuna variazione), “trasporti” (17,1, -0,5), “riequilibrio territoriale” (14,9, +1,4), “ordine pubblico” (13,1, +0,1), “giustizia” (11,7, +0,3), “università” (11,6, +0,1), con i restanti 43,2 miliardi (-3,4 rispetto all’anno precedente) suddivisi tra tutte le rimanenti voci.
In sostanza, la scorsa manovra aveva previsto per il triennio 2025-2027, in termini di fabbisogno, interventi per 37,4 miliardi di euro, corrispondenti a 15 miliardi di minori entrate e 22,4 di maggiori spese, e coperture complessive per 25,6 miliardi, pari a 13,8 di maggiori entrate e 11,7 di minori spese, con un saldo finale negativo pari a poco più di 11,8 miliardi di euro.
Le cifre inizialmente annunciate per la manovra di quest’anno prevedevano interventi per 18,8 miliardi, a fronte di coperture per 17,9 miliardi. Nel Ddl approdato in Parlamento per il triennio 2026-2028 si parla ora di interventi per 13,2 miliardi, corrispondenti a 28 miliardi di maggiori uscite e 13,9 miliardi di tagli alle spese, a fronte di una copertura di 4,5 miliardi, corrispondenti a 23,1 miliardi di maggiori entrate e 18,6 miliardi di minori entrate. La manovra più esigua e di più modeste dimensioni da molto tempo a questa parte, con un totale di misure pari a un terzo della dimensione media dal 2014 almeno.
Certo, anche se le nuove regole europee prevedono un aggiustamento del deficit più graduale di prima, è vero che lo spazio per finanziamenti in deficit è molto limitato. Ma ciò non implicava, necessariamente, che la manovra non dovesse essere più espansiva, finanziata con maggiori misure di copertura. Il governo, evidentemente, non ha ritenuto di volerle trovare per farne uno strumento espansivo, dando così luogo a una finanziaria che “vola basso”, anzi rasoterra, senz’alcuna ambizione strategica.
Riguardo agli aumenti della spesa per la Difesa, il governo pare essersi impegnato a spendere 3,5 miliardi in più nel 2026 (che vanno ad aggiungersi ai 31 miliardi già messi a budget) e 12 miliardi in più in tre anni. Per le spese per la Difesa, però, verrà richiesta l’attivazione della clausola di salvaguardia per finanziare in deficit, magari utilizzando il meccanismo Safe proposto dalla Commissione europea per l’erogazione dei corrispondenti prestiti agevolati.
Guardiamo alle misure, cominciando da quelle espansive. La voce più consistente appare quella delle misure per le imprese, comprendente gli incentivi per le Zone economiche speciali e la “Legge Sabatini”, per 2,6 miliardi nel 2026, 1,6 nel 2027 e 900 milioni nel 2028. Queste misure comprendono gli incentivi agli aumenti salariali (2,1 miliardi nel 2026) e vari bonus. La seconda voce è il finanziamento al Servizio sanitario nazionale che ammonta a 2,4 miliardi nel 2026, 2,7 nel 2027 e altri 2,7 nel 2028, che vanno ad aggiungersi ai cinque miliardi in più stanziati nella Legge di Bilancio 2025 per il 2026.
Si hanno poi per l’Ape sociale 200 milioni nel 2026 e 300 milioni nel 2027 e nel 2028; per le pensioni 300 milioni nel 2026, che saliranno a 1,8 miliardi nel 2027 e 1,1 miliardi nel 2028; per i contributi all’acquisto di alimentari 500 milioni nel 2026 e nel 2027, mentre per l’esonero contributivo per le madri un solo finanziamento di 400 milioni nel 2026. Alle modifiche all’Isee vengono destinati 500 milioni all’anno. In sostanza, le misure per la famiglia e la spesa sociale ammonteranno a 1,9 miliardi nel 2026, per decrescere in seguito.
A Regioni ed enti locali e ai Livelli essenziali di prestazione (Lep) vengono destinati 700 milioni aggiuntivi nel 2026, 900 nel 2027 e 1,1 miliardi nel 2028. Alle altre voci residue, incluse le maggiori spese per interessi passivi, vengo destinati 600 milioni nel 2026, 1,1 miliardi nel 2027 e 1,2 miliardi nel 2028.
I tagli di spesa, invece, riguarderanno diversi aspetti. Iniziando da una rimodulazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per 5,1 miliardi nel 2026, 700 milioni nel 2027 e 400 milioni nel 2028, una spending review (ovvero tagli alle spese dei ministeri) per 1,5 miliardi nel 2026, 2,5 miliardi nel 2027 e 2,7 nel 2028 e l’università, con 100 milioni in meno a partire dal 2028. Infine, verranno ridotte altre spese non specificate, per 200 milioni nel 2026 e 400 milioni nel 207 e nel 2028.
Dal lato delle coperture, la manovra prevede maggiori entrate con diversi meccanismi. A partire da misure a carico delle banche per 2,9 miliardi nel 2026, 3,8 miliardi nel 2027 e 1,8 miliardi nel 2028. In particolare, si prevede un aumento di due punti percentuali dell’Irap per banche e assicurazioni, rispettivamente, dal 4,65% al 6,65% e dal 5,90% al 7,90%. Seguono poi misure fiscali a carico delle imprese, per 2,9 miliardi nel 2026, 2,1 miliardi nel 2027 e 1,7 miliardi nel 2028. A queste si aggiungono l’emersione dell’Iva e riscossione per 900 milioni nel 2026, 1,1 miliardi nel 2027 e nel 2028, maggiori accise per 800 milioni all’anno nei tre anni, misure a carico del pubblico impiego per 400 milioni nel 2027 e 100 milioni nel 2027 e nel 2028 e a carico del Servizio sanitario nazionale per 400 milioni nel 2026 e 500 milioni nel 2027 e nel 2028. Infine, sono previste altre misure per 200 milioni nel 2027 e nel 2028. Tra queste, un aumento dell’aliquota sulla cedolare secca al 26% sui contratti d’affitto sul primo immobile solo per chi si affida a intermediari immobiliari o portali telematici, mentre resta al 21% per gli altri.
Le minori entrate riguarderanno invece diversi fattori. A partire dalla riduzione delle aliquote Irpef per il secondo scaglione (redditi da 28mila a 50mila euro) dal 35% al 33%, che dovrebbe ammontare a 8,9 miliardi in tre anni di minori entrate -2,9 miliardi nel 2026, tre miliardi nel 2027 e nel 2028- coinvolgendo 13,6 milioni di contribuenti e dalla riduzione dell’imposta sostitutiva Irpef per 1,2 miliardi nel 2026 e 500 milioni nel 2027.
Seguono detrazioni per la casa nulle per il 2026, di 500 milioni nel 2027 e 600 milioni nel 2028, una nuova rottamazione delle cartelle (“quinquies”) per 1,5 miliardi nel 2026, 600 milioni nel 2027 e 500 milioni nel 2028. Sono previste inoltre agevolazioni per il pubblico impiego per 800 milioni nel 2026 e 200 milioni nel 2027 e nel 2028 e per le assunzioni a tempo indeterminato per 200 milioni nel 2026, 300 milioni nel 2027 e 100 milioni nel 2028. Infine, sono previste misure a favore dell’iper-ammortamento delle imprese per 500 milioni nel 2027 e un miliardo nel 2028, la riduzione della cosiddetta “plastic tax” e della “sugar tax” per 400 milioni nel solo 2026 e altri tagli per 200 milioni nel 2026 e 400 milioni nel 2027.
Che cosa ha guidato le scelte del governo e quali linee possiamo individuare? Dal lato delle entrate, si è parlato molto delle misure a carico delle banche. Va detto che queste si configurano, di fatto, come un contributo su base volontaria da parte di istituti di credito e assicurazioni (non è chiaro se si tratti di anticipo di tassazione o tassazione una tantum) per 8,5 miliardi in tre anni. Le altre misure, come quelle a carico delle imprese e per il recupero dell’Iva e le altre, dovrebbero portare nelle casse 14,6 miliardi aggiuntivi. Le varie riduzioni di imposta, l’ennesima “rottamazione” delle cartelle e la riduzione delle aliquote Irpef dovrebbero invece ridurre le entrate di 18,6 miliardi.
Dal lato delle uscite, la principale voce sono le riduzioni delle spese previste per il Pnrr (5,1 miliardi nel 2026) e il taglio della spesa dei ministeri (6,7 miliardi nel triennio), più non ben precisati “tagli di spesa” per un altro miliardo nel triennio. Sulle spese, peraltro, si è proceduto con il bilancino. Ad esempio, la maggior spesa per le pensioni nel triennio (300 milioni il primo, 1.800 milioni il secondo e 1.100 il terzo) corrisponde alla decisione di adeguare solo gradualmente l’età di pensionamento all’aumento dell’aspettativa di vita: invece dei tre mesi previsti nel 2027, l’aumento sarà di un mese nel 2027 e due nel 2028 (quasi per tutti, esclusi l’1% di esodati, i lavori cosiddetti “gravosi” e “usuranti” coperti dall’Ape sociale, lasciando fuori disoccupati, caregiver, invalidi e precoci). Inoltre, alle pensioni minime andranno dal prossimo anno meno di quattro euro in più al mese, come anche alle pensioni “sociali” agli over 70 a basso reddito (non i 20 euro extra annunciati dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in conferenza stampa subito dopo l’approvazione della manovra in Consiglio dei ministri). Un aumento che, va da sé, non compenserà la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione. D’altro canto, invece, “Quota 103” e “Opzione donna” sono state cancellate.
Al contrario, la decisione di rimodulare le spese del Pnrr per il 2026 potrebbe preludere a una maggiore spesa per investimenti pubblici nel 2027-2028, il che, però, è tutto da verificare (e da temere, soprattutto se questi andranno in “grandi opere”). Peraltro, come sottolineato anche dall’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci), se è vero che i Comuni non subiscono ulteriori tagli -dopo quelli praticati dalle ultime manovre- non si individuano risorse adeguate per sicurezza, diritto alla casa e alcune voci in emergenza della spesa corrente. Non c’è spazio per un nuovo “piano casa”, con finanziamenti diretti e progetti flessibili e adattabili ai territori, accompagnato da una legge quadro nazionale. Su questo, “risorse zero”, come ha ribadito il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini. Mentre in molte città il caro affitti e la domanda di alloggi affliggono molte famiglie a basso reddito.
Questi i dati noti di una manovra che andrà monitorata nei dettagli e che subirà comunque modifiche prima della conversione in legge, ma che appare comunque fatta “con il freno tirato”. Certo, viene detto, questa punterebbe al “risanamento”. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro Giorgetti hanno mostrato grande soddisfazione per uno stato dei conti pubblici che vede il ritorno all’avanzo primario (più entrate rispetto alle spese, al netto degli interessi sul debito). In realtà non si tratta di gestione virtuosa, ma di austerità, che sosterrà chi paga le tasse. Il prelievo fiscale, infatti, già salito dal 41,4% del Pil del 2024 al 42,6% del 2025, crescerà fino al 42,8% del 2026, uno dei livelli più alti negli ultimi quindici anni, che rimarrà su questi livelli anche nel biennio seguente, che non fa certo leva sull’aumento della pressione fiscale sulle banche, sulle rendite finanziarie o sulle tasse di successione dei super ricchi, ma da quel vero e proprio “furto” ai danni di milioni di contribuenti con redditi bassi e medio-bassi da lavoro dipendente.
Infatti, come ha scritto su Altreconomia Alessandro Volpi, l’aumento dell’inflazione registrato negli ultimi anni ha gonfiato il valore nominale delle retribuzioni e delle pensioni delle lavoratrici e dei lavoratori che, spesso, ha comportato il loro passaggio a un’aliquota superiore con maggiore prelievo fiscale (il noto fiscal drag) non certo giustificato da un aumento di reddito reale, del tutto assente. Tale aumento di gettito a discapito dei contribuenti è stato reso ancora più marcato da due ulteriori fattori: la mancanza di sistemi di indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita, assenti peraltro anche nell’ultima Legge di Bilancio, e la mancata restituzione del maggior incasso da parte dallo Stato ai contribuenti. In due anni, si valuta che, per effetto di questo meccanismo, lo Stato abbia incassato 50 miliardi in più e ne abbia restituiti meno di 17 ai contribuenti. Il tanto celebrato risanamento, tanto caro alle agenzie di rating e al Governo Meloni, è il prodotto di questa colossale ingiustizia sociale.
Alle banche viene richiesto un contributo di 8,5 miliardi in tre anni. In che cosa consista realmente tale “contributo” concordato dalle banche con il ministro Giorgetti è però chiaro, perché si tratta di null’altro che di un anticipo di imposte, sulla cui certezza, peraltro, è difficile scommettere (come è anche difficile prevedere come questi costi si tradurranno sulla clientela). In pratica, le banche verseranno subito imposte future che, naturalmente, poi non pagheranno. In questo senso Meloni e Giorgetti hanno ottenuto, come massimo risultato nei confronti delle banche, un anticipo di liquidità che dovrà restituire il prossimo governo. Il che suona davvero incredibile, se si considera che le banche italiane dal 2022 al 2025 hanno realizzato quasi 165 miliardi di utili con un tax/rate medio (rapporto tra tasse pagate e utili) del 22%.
Va poi aggiunto che in Italia, l’erogazione dei crediti da parte del sistema bancario riguarda quasi esclusivamente le imprese con più di 20 dipendenti, a cui sono andati, nel 2025, ben 550 miliardi di euro di prestiti, con un incremento di oltre otto miliardi, mentre a quelle con meno di 20 dipendenti sono stati destinati solo poco più di 96 miliardi, con una perdita secca di quasi sei miliardi. Alla luce di ciò, è evidente che neppure il costoso sistema di garanzie pubbliche, che immobilizza quasi 300 miliardi di euro, ha convinto le banche a non assumersi il rischio di finanziare le imprese più piccole: un dato, questo, particolarmente grave per un’economia come quella italiana dove le imprese con meno di venti dipendenti rappresentano il 98% del totale. Bisogna poi ricordare che il volume complessivo dei crediti erogati dalle banche italiane si è ridotto nel tempo, passando dai circa mille miliardi di euro del 2011 agli attuali 650 e si è, al contempo, fortemente concentrato in prestiti di entità considerevole, spesso legati a settori, come l’immobiliare e l’edilizio, incentivati da sostegni pubblici.
È pertanto fuori luogo il ringraziamento che la presidente del Consiglio ha rivolto alle banche “per i grandi sforzi fatti”. Sincero, invece, appare il ringraziamento del presidente di Confindustria alla stessa Meloni per quanto ottenuto dalla Legge di Bilancio: 6,7 miliardi di misure fiscali a carico delle imprese a fronte di riduzioni di imposte per 2,1 miliardi e 5,1 miliardi di euro in tre anni in “aiuti” per le Zone economiche speciali, e il beneficio della “flat tax” al 5% sugli aumenti contrattuali (e dispiace che Emiliano Brancaccio, come parte della sinistra, sia d’accordo su questa misura, che è un incentivo a un fisco per “categorie”, che frammenta ulteriormente il mondo del lavoro e che non è certo equo). Quest’ultima misura è emblematica del modo di intendere il sostegno del governo ai lavoratori che avviene, appunto, attraverso gli aumenti contrattuali di fatto decisi dai datori di lavoro e attraverso i premi di produttività. Come era prevedibile, invece, non è prevista alcuna forma di indicizzazione salariale, una misura che avrebbe trovato la ferma opposizione di Confindustria. Banche e Confindustria davvero non possono lamentarsi di Giorgia Meloni.
La Legge di Bilancio contiene però altri elementi bene chiari che vanno nella direzione del taglio della spesa sociale per poi favorire, eventualmente, l’aumento della spesa per il riarmo. Gli investimenti pubblici aggiuntivi dichiarati per il 2026 (nonostante la rimodulazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza), saranno nulli; agli enti territoriali andranno 2,7 miliardi in più mentre gli incentivi alle imprese ammonteranno, come detto, a 5,1 miliardi. Alle altre voci di spesa, invece, saranno destinati gli ammontari già a budget, senza alcun aumento: 5,8 miliardi a tutela del territorio e dei beni culturali, 14,9 miliardi per sviluppo e riequilibrio territoriale, 6,3 miliardi alle infrastrutture pubbliche, 4,3 miliardi per ricerca e innovazione, 3,5 miliardi per immigrazione e accoglienza, 3 miliardi per misure di tutela della salute, 700 milioni per la casa.
Due parole, però, dobbiamo spenderle su sanità e istruzione. Nel 2024, la spesa pubblica per la sanità in Italia è stata di circa 137,46 miliardi di euro, pari al 6,25% del Pil, he posiziona il nostro Paese al di sotto della media Ocse (7,1%) ed europea (6,9%), di Germania (10,6%), Francia (9,7%), Svezia (9,7%), Regno Unito (9,1%), Austria (9%), Finlandia (8,6%), Paesi Bassi (8,3), Norvegia (8,3%), Danimarca (7,8%), Spagna (6,7%), Portogallo (6,4%) e anche Stati Uniti (14,3%). In termini pro-capite, l’Italia è oggi al quattordicesimo posto in Europa.
Nel 2025 la spesa per la sanità dovrebbe arrivare a 142,3 miliardi, circa 6,3% del Pil. Se la spesa sanitaria crescerà, come detto, di 2,4 miliardi nel 2026, la percentuale sul Pil (ipotizzando una crescita nominale del 2,8%, secondo le indicazioni del governo), scenderà al 6,23%. Con gli aumenti di spesa ipotizzati, peraltro, nel 2028 la spesa sanitaria scenderà per la prima volta sotto il 6% del Pil.
La spesa pubblica per istruzione, inclusa quella terziaria, è stata il 7,3% della spesa pubblica totale nel 2024 e sarà il 7,5% nel 2025, una percentuale ben inferiore alla media europea del 9,6%. In termini di Pil, l’Italia spende in istruzione il 4%, meno di Spagna e Portogallo (il 4,3%), Germania (4,5%), Polonia (4,6%), Austria (4,8%), Regno Unito (4,9%), Paesi Bassi (5,1%), Ungheria (5,1%), Danimarca (5,3%) e anche Stati Uniti (5,4%). A fronte di ciò, i fondi alle scuole paritarie private sono aumentati notevolmente, passando da circa 551 milioni di euro nel 2021 a oltre 750 milioni per il 2024-2025.
Le spese per la Difesa, invece, sono rimaste fuori dalla manovra -per ora- perché, per quelle, si prevede l’attivazione di una procedura speciale. Non appaiono, infatti, gli aumenti già ventilati che, si prevede, già a novembre dovrebbero essere formalizzati, facendo ricorso alla procedura straordinaria extra-deficit e ricorrendo al meccanismo europeo Safe. Le spese militari, secondo quanto anticipato, già dal 2026 aumenteranno di 3,5 miliardi (in aggiunta ai 31 miliardi annui già destinati alla difesa), e di 12 miliardi nel triennio. Si badi bene, però, come fa notare l’Osservatorio sulle spese militari italiane Milex, che il computo reale è perfino più allarmante, perché questi numeri si riferiscono alla somma degli aumenti. L’aumento effettivo programmato rispetto al 2025, infatti, sarebbe di 3,5 miliardi nel 2026, di sette miliardi nel 2028 e di 12 miliardi nel 2028, per un totale di 22,5 miliardi, una cifra enorme. Ciò ai fini di portare l’esborso per le spese militari dall’attuale target del 2% del Pil al 2,5% nel 2028.
Peraltro, nel 2024 l’Italia era già al quattordicesimo posto nel mondo per spesa militare corrente (con quasi 38 miliardi di dollari), dietro a Germania (88,5), Regno Unito (81,8), Ucraina (64,7), Francia (64,7) e Polonia (38) in Europa. Con l’aumento previsto, l’Italia si porterà avanti nel ranking mondiale, avvicinandosi così alla Francia al decimo posto. Pertanto, se l’aumento di spesa verrà effettivamente messo in atto, esso andrà messo a bilancio -da qui al 31 dicembre- tanto da avere, alla fine una manovra non di 28 miliardi di uscite ma di 50,5 in tre anni, di cui quasi la metà del totale dedicata alla difesa. E si capisce quindi, perché, alla fine, il governo abbia “volato basso” per tenersi le mani libere alla voce “riarmo” e poter presentarsi alla Nato a Bruxelles con le carte in regola.
Il Paese, però, è in sofferenza. La produzione industriale è in calo o stagnante da tre anni, la povertà è in aumento, i salari reali sono in calo, soprattutto per le professioni meno qualificate, le disuguaglianze di reddito sono in aumento. Che cosa fa questa manovra a riguardo? Nulla. Si preoccupa di rientrare dal deficit, fa a voce grossa con le banche e le assicurazioni, promette qualcosa e male alle imprese, non fa nulla per il lavoro.
Appare evidente che la Legge di Bilancio ha come unico obiettivo quello di riportare il deficit al di sotto del 3% e uscire dalla procedura d’infrazione, operando tagli e inserendo misure che dovrebbero garantire benefici che in realtà sono di entità minima, senza alcun provvedimento di carattere strutturale in grado di invertire la rotta e non lasciare affondare il Paese. Tenendosi le mani libere per poi aumentare la spesa militare fuori deficit.
Certo, ci si può chiedere a che cosa serve rientrare nel parametro del 3%. Forse, ad avere un punteggio migliore da parte delle agenzie di rating di proprietà dei grandi fondi Usa, anche se questo non serve a pagare meno interessi sul debito, visto che i rendimenti dei titoli di Stato italiani restano decisamente assai alti. La riduzione del deficit, peraltro, non serve nemmeno ad avere più risorse dall’Unione europea, visto che, tra poco, cesseranno anche i fondi Pnrr il cui unico risultato è stato quello di consentire al Pil di crescere appena di mezzo punto e visto che il nostro Paese continua a versare al bilancio europeo più di quanto riceva.
Perché, allora, questo feticismo del rigore che, di fatto, non consente neppure di adeguare la spesa pubblica all’inflazione? Giorgia Meloni, quando era all’opposizione, lanciava strali contro il Patto di stabilità e ora ne è diventata la più zelante interprete in perfetto stile draghiano. Forse servirebbe una prospettiva politica che partisse da un dato ormai insostenibile: in Italia le entrate fiscali totali derivano per quasi il 40% dai salari, mentre provengono dai profitti per meno del 5%: ciò avviene nonostante i profitti siano arrivati a essere pari al 40% del Pil, con un aumento in vent’anni di quasi sette punti rispetto ai salari. Come afferma Alessandro Volpi, siamo il Paese dello sceriffo di Nottingham dove alle banche e alle assicurazioni si chiede se, cortesemente, anticipino le tasse che non pagheranno in futuro, dimenticando i colossali profitti e, nel caso delle assicurazioni, non considerando che l’introduzione universale della polizza sulle calamità naturali è destinata a generare entrate per una cifra oscillante fra i due e i quattro miliardi di euro l’anno. Ma le tasse le paga il lavoro dipendente a cui il Patto di stabilità sottrae il welfare.
Inoltre, per citare il segretario della Cgil Maurizio Landini, “l’industria è in crisi, il governo è assente”. Nel solo 2024 il fatturato dell’industria italiana è calato di 42 miliardi rispetto all’anno prima, pari a 115 milioni di euro bruciati ogni giorno, con un -2,5% a prezzi costanti e -3,6% a valori correnti. A pesare è la domanda interna (-3%), mentre l’export arretra dell’1,7%. La produzione industriale è tornata così ai livelli del 2020 e l’indice manifatturiero segna da oltre trenta mesi valori negativi. Nei primi sei mesi del 2025 il ricorso agli ammortizzatori sociali è già cresciuto del 61% rispetto all’intero 2024.
Una manovra più che conservatrice, che privilegia i ceti più abbienti e un certo ceto medio, non tutto, che non si cura, come detto, di quanto ingiusto sia il nostro sistema fiscale, in cui vi sono tanto ingiustizie “di classe” (per via delle flat tax sui redditi da capitale, i super ricchi pagano un’aliquota media addirittura inferiore al resto della popolazione), che ingiustizie “orizzontali” (grazie al regime forfettario, gli autonomi con un fatturato o compensi lordi inferiori a 85mila euro pagano molto meno dei lavoratori dipendenti). Da farci dire che questo governo deve andarsene, non solo perché simpatizzante degli autoritari e genocidari e in cuor suo autoritario esso stesso, ma perché sta facendo il male del Paese.
Fonte: Altreconomia.it, 03 Novembre 2025
Pier Giorgio Ardeni è professore di Economia politica e dello sviluppo presso il Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna. Si occupa di disuguaglianze sociali e sviluppo economico. Il suo libro più recente è “Sviluppo al capolinea” (Meltemi, 2025).

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