NELLE DISPUTE INTERNAZIONALI LA RAZIONALITÀ DOVREBBE ESSERE AFFIDATA ALLA DIPLOMAZIA, ARTE INVENTATA IN EUROPA PRIMA CHE NEGLI USA.
MA LA GUERRA È DIVENTATA LA RAGION D’ESSERE PER GRAN PARTE DEI GOVERNI EUROPEI
di Barbara Spinelli

Ancora non è dato sapere se gli Stati europei che minacciano di svuotare l’accordo di pace con la Russia riusciranno nel loro intento: bloccare il piano che Trump discute con Mosca perché le radici del conflitto siano infine sanate, spingere Kiev a ignorare quel che accade sul fronte, restare appesi al pensiero magico di una guerra giusta (quando si dice pace giusta s’intende guerra giusta).
Fin d’ora tuttavia è abbastanza chiaro che gli Stati in questione non riconosceranno facilmente di essersi sbagliati su quasi tutto, di non essere comunque affidabili militarmente, e di aver distrutto quel pochissimo che esisteva delle tradizioni diplomatiche europee, ben più antiche di quelle statunitensi e qualificabili come occidentali e atlantiste solo nello spazio temporale della Guerra Fredda.
Chi grida contro la capitolazione farebbe bene ad ascoltare le parole di Iuliia Mendel, ex portavoce di Zelensky e convinta sostenitrice dell’Ucraina:
“Il mio Paese sta sanguinando. Molti di coloro che si oppongono istintivamente a ogni proposta di pace credono di difendere l’Ucraina.
Con tutto il rispetto, questa è la prova più evidente che non hanno idea di cosa stia realmente accadendo in prima linea e all’interno del Paese in questo momento”.
Il post verrà forse smentito, ma l’editorialista Wolfgang Münchau lo fa proprio e chiosa:
“I più accaniti sostenitori di Kiev in Europa sono coloro che non hanno la minima comprensione della realtà militare sul campo”. Zelensky forse l’ha capita prima dei propri accaniti sostenitori, se è vero che ha accettato buona parte del piano Trump.
Oggi è difficilissimo dire quale sia l’Europa in cui i cittadini possano riconoscersi.
Non è l’Ue: i Ventisette sono divisi, e a guidare la Commissione c’è una persona – Ursula von der Leyen – che ha abbracciato l’antico disdegno della DC tedesca verso la politica di distensione.
Disdegno condiviso in Germania da Verdi, Liberali e Socialdemocratici, che della Ostpolitik di Willy Brandt non hanno più cognizione.
Né i cittadini possono riconoscersi in un’Unione che si fa rappresentare in politica estera da un’ex premier estone –Kaja Kallas – che in patria nega diritti sostanziali alla minoranza russa (20,9% della popolazione) e ha dimostrato di non sapere neanche lontanamente chi ha vinto la Seconda guerra mondiale e perché Russia e Cina siano tra i 5 membri permanenti nel Consiglio di sicurezza Onu.
Non godono di maggiore legittimità le più recenti e marziali configurazioni: i Volenterosi pronti a mandare soldati in Ucraina, o la Comunità politica europea inventata da Macron nel 2022 per aggirare i refrattari dell’Ue, reincorporare Londra in Europa e inglobare Stati ex sovietici affetti da russofobia acuta (Ucraina, Georgia, Moldavia).
Altro cascame del pensiero magico europeo: l’asse
Berlino-Londra-Parigi, detto anche E3 perché ogni distopia ha bisogno dei suoi acronimi.
Alla sua testa, tre personaggi in cerca d’autore: Macron e Starmer sono sulla via del tramonto, Merz aspira alla metamorfosi regressiva della Germania e resuscita tradizioni militari che hanno devastato più volte il Paese.
Nel loro contropiano si dice che la lingua delle minoranze russe e le libertà degli ortodossi russi saranno rispettate nel quadro dell’adesione di Kiev all’Ue.
Promessa vana, visto come sono trattati i russi nei Baltici.
Da queste configurazioni è arduo uscire, perché la guerra è diventata non solo l’idea fissa, ma la ragion d’essere per gran parte degli Stati Ue.
Al posto della storia europea, dei suoi disastri e delle sue prese di coscienza, ci ritroviamo con l’illusoria “success story” dell’atlantismo e una diffusa allergia alla sovranità.
Trump è disposto ad assicurare la non adesione di Kiev alla Nato e il ritorno dell’Ucraina alla neutralità, ma i Volenterosi Ue recalcitrano, fingendo d’ignorare che la radice della guerra per Mosca è la Nato alle porte di casa. Buona parte d’Europa è in trasformazione, con Berlino all’avanguardia.
A parlare in suo nome non sono i diplomatici ma le industrie militari, i generali, i politici improvvisati, i giornali aizzatori.
Sono gli accaldati tifosi descritti da Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”.
Più verosimilmente vicina è la guerra, più sono consentite menzogne, pensieri magici, poteri accentrati.
Militari e faccendieri non sono sotto i riflettori in tempi di pace, ma d’un tratto occupano il palcoscenico.
Il capo di Stato maggiore francese generale Fabien Mandon dichiara il 19 novembre, approvato da Macron: “Quel che ci manca (…) è la forza d’animo di accettare di farci del male per proteggere quello che siamo. Se il nostro Paese vacilla e cede, è perché non è pronto ad accettare di sacrificare i propri figli – osiamo dire le cose come stanno! – e di soffrire economicamente quando le priorità andranno alla produzione di difesa.
Se non siamo pronti a questo siamo a rischio” (aveva detto cose simili Antonio Scurati il 5 marzo scorso).
Prontezza è il motto iscritto sul frontone del Riarmo Europa annunciato il 4 marzo 2025 da Von der Leyen.
Credevano d’aver indorato la pillola evitando la parola riarmo. È molto peggio “prontezza”.
Nello stesso giorno, il 19 novembre, il presidente di Airbus, René Obermann, ha esortato gli europei a dotarsi di armi nucleari tattiche per contrastare l’espansionismo russo (oltre alle atomiche strategiche condivise con Washington).
Un’atomica tattica oscilla tra 1 e 50 chilotoni: non son bruscolini.
Hiroshima fu colpita da una bomba di 16 chilotoni, per Nagasaki si passò a 21.
Poco dopo Einstein disse: “Ora è venuto il momento in cui l’essere umano deve rinunciare alle guerre. Non è più razionale risolvere i problemi internazionali ricorrendo alla guerra”.
Poi c’è il quando.
Quando ci attaccherà Mosca?
Secondo il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, socialdemocratico, l’anno fatale è il 2029.
Nelle dispute internazionali la razionalità dovrebbe essere affidata alla diplomazia, arte inventata in Europa prima che negli Stati Uniti.
Non spetta ai capi di Stato maggiore, ai faccendieri, neanche ai giornalisti.
Al tempo stesso si può capire che Trump preferisca gli uomini d’affari, pur di tenere a bada i neoconservatori come il ministro degli Esteri Marco Rubio, che non solo ignorano la diplomazia ma la odiano.
È comprensibile che mandi l’immobiliarista Steve Witkoff a parlare con Putin, e che Putin a questo punto mandi non Lavrov ma Kirill Dmitriev, capo del Fondo russo per gli investimenti diretti.
Gira voce che la bozza del piano di pace l’abbia scritta Dmitriev, e Trump l’abbia ingoiata sotto tortura.
In Europa i pensieri da ombrellone sono per tutto l’anno, Natale compreso.
Chi non riconosce le disfatte ucraine guarda senza vedere.
Quanti ucraini devono morire perché l’Europa smetta i paramenti dell’Occidente atlantista e ricominci a parlare con Mosca?
Se nel marzo 2022 Kiev s’accontentò di un esercito di 80.000 uomini, come non vedere che Mosca gliene concede ora 600 mila (la metà delle truppe attuali) e chiederne 800.000?
Mosca è disposta a riparare l’Ucraina con 100 miliardi dei propri fondi congelati soprattutto in Belgio.
Gli europei s’offendono e replicano: su quei soldi decidiamo noi e basta.
Come sostengono Anatol Lieven e il Quincy Institute, un accordo che restituisce indipendenza ai tre quarti dell’Ucraina, che prevede l’ingresso nell’Ue e le riparazioni russe non è precisamente una capitolazione.
È la sconfitta di Zelensky e dell’idea di Kiev come baluardo, non dell’Ucraina. È la presa d’atto che Mosca non ha in mente di invadere l’Europa e neanche vuole “incamerare” l’Ucraina, ma non vuole la Nato e le atomiche schierate alle proprie porte.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, Mercoledì 26 Novembre 2026

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