di Linda Santilli

Ancora raid israeliani su Gaza, ancora morti. E gli aiuti non entrano.
A scuola ci hanno insegnato che la guerra finisce quando si firma un armistizio e finalmente tacciono le armi. Oggi non funziona più così.
A Gaza e in Cisgiordania la guerra non è finita . Ha cambiato forma. E’ sparita dai titoli, è scivolata dietro le dirette televisive, l’hanno nascosta sotto le parole rassicuranti della diplomazia. Ed è lì, nel momento in cui non la si può più chiamare guerra, che la guerra diventa assoluta.
Il cosiddetto dopoguerra palestinese non è la fine dell’orrore: è l’orrore che perde il nome.
Ma era già tutto scritto. Le immagini del “cessate il fuoco” avevano per noi il sapore metallico della propaganda. Abbiamo visto a reti unificate, da una parte folle israeliane in festa, bandiere e stendardi, l’attesa del ritorno dei prigionieri accolti come eroi, circondati da rituali nazionali e da un riconoscimento politico assoluto. Dall’altra famiglie palestinesi smarrite che rientravano a piedi verso un luogo che un tempo chiamavano casa. File infinite di esseri umani con sacchetti di plastica, scarpe sfondate, bambini stremati che avanzano su strade di polvere, attraverso chilometri di detriti. Non ritornavano: cercavano. Cercavano, cercano forse, un muro ancora in piedi, un punto geografico che sia ancora identità e non solo macerie. Il modo in cui fu presentata la Pace in quei giorni lasciava prefigurare il peggio, e ne abbiamo spese di parole sdegnate in tempo reale. Serate di contorsione di stomaco.
I prigionieri palestinesi liberati, presentati come delinquenti “graziati”. I prigionieri israeliani rilasciati rappresentati come simboli nazionali, medaglie viventi di una lotta legittima. Il vocabolario non è neutrale, il linguaggio è un’arma, il racconto è parte della guerra, e questa è forse l’arma più potente: stabilire chi è umano e chi lo è un po’ meno. Ricordare il modo scandaloso in cui fu narrato il momento della avvenuta pace, non dobbiamo dimenticarlo mai. Ricordare le parole usate. Quei due pesi e quelle due misure che la propaganda occidentale non ebbe la decenza di mascherare, non dobbiamo dimenticarli mai. La falsità, le bugie, le mistificazioni. Mai dimenticarli. Perché oggi siamo al punto culmine delle parole bugiarde e della tragedia e all’orizzonte vediamo la minaccia della dimenticanza, la normalizzazione.
Il dopoguerra è il momento in cui l’ingiustizia diventa amministrativa, burocratica, giustificata, normalizzata. Ed è allora che diventa invincibile. Perché finché la guerra fa rumore, può essere denunciata. Ma quando la guerra parla la lingua della tregua, della cooperazione, della distanza diplomatica, mentre continua a consumare vite, allora smettiamo perfino di riconoscerla. E ciò che non ha nome non genera indignazione. Non porta rivolte. Non produce responsabilità.
Gaza oggi non è un dopoguerra, è un’epoca, un’epoca in cui la pace viene pronunciata con la stessa lingua con cui ieri si giustificava la guerra. L’unica differenza tra le due è che le bombe fanno rumore, la disumanizzazione no.
Le parole usate fanno da specchio. Non più guerra ma ricostruzione, o quasi. Non più genocidio ma pace in divenire. E se non è pace sarà colpa di Hamas.
È la pace dei cimiteri.
Leader politici, governi, portavoce militari ripetono la parola stabilità, processo, soluzione, mentre la vita a Gaza resta un’emergenza continua, e mentre organizzazioni internazionali, giuristi e osservatori dei diritti umani continuano a parlare di crimini di guerra, punizioni collettive, violazioni sistematiche dei diritti umani.
È il più grande paradosso morale del nostro tempo: la pace non è l’opposto della guerra, è l’operazione cosmetica con cui si rende accettabile ciò che resta insopportabile. È il momento in cui le telecamere vengono abbassate, gli hashtag si spengono, la tragedia viene digerita dal pubblico e l’ingiustizia non sconvolge più. Questo è il rischio che corriamo.
A noi resta il compito di tenere i riflettori puntati sulla scena e continuare a gridare fortissimo Free Palestine.

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