Ott 23, 2025 | Articoli

MARWAN BARGHOUTI: LA GUIDA

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Il corpo torturato, l’anima intatta: ritratto di Marwan Barghouti

Lo hanno pestato. Otto contro uno.
Marwan Barghouti, il prigioniero più amato e più temuto di Palestina, è stato massacrato dalle guardie carcerarie israeliane il 14 settembre 2025. Durante un trasferimento punitivo tra le prigioni di Ofer, Ramla, Ohalay Kedar e Megiddo.

Lo hanno colpito fino a farlo svenire. Quattro costole rotte, forse sei. Vestiti intrisi di sangue. Due giorni senza dormire per il dolore. Nessuna assistenza medica. Nessuna pietà.
Il figlio Arab denuncia: «Otto guardie lo hanno picchiato con ferocia. Vogliono ucciderlo in silenzio. Ma non ci riusciranno».

Un ex detenuto, Ayman al-Sharabati, racconta: «Era ammanettato. La Nahshon, l’unità più violenta, gli è saltata addosso come un branco». Un altro testimone, Ayman Fouad Karammji, aggiunge: «Lo hanno lasciato a terra, senza acqua né cure. Quando è tornato in cella, i vestiti erano pieni di sangue».

Da mesi Israele lo tortura, lo isola, lo sposta di carcere in carcere. Niente contatti. Niente visite. Nessuna voce dall’esterno. Solo dolore.

Agosto 2025. Itamar Ben-Gvir, ministro psicopatico dell’estrema destra israeliana, entra nella sua cella con una troupe televisiva. Lo provoca, lo deride, lo umilia. Una scena coloniale. Ma l’effetto è l’opposto: indignazione globale, solidarietà crescente. Barghouti diventa ancora più grande. Ancora più pericoloso. Israele ha paura di Marwan Barghouti perché rappresenta ciò che non può : la legittimità della resistenza.

6 giugno 1959. Kobar. Un villaggio di pietra, colline e ulivi. Qui nasce Marwan Barghouti. Il mondo intorno è già occupato. Soldati ai posti di blocco, terre confiscate, un popolo in ginocchio. A quindici anni ha già scelto da che parte stare. Entra in Fatah. Non per gioco, ma per destino. Nel 1976 il primo arresto. Quattro anni di prigione. La cella diventa scuola. La resistenza, grammatica quotidiana.

Quando esce, non arretra. Fonda la Shabiba, il movimento giovanile di Fatah. Studia storia e politica a Birzeit. Non separa mai i libri dalla militanza.

  1. Prima Intifada. Pietre contro blindati, ragazzi contro esercito. Barghouti è lì, a organizzare la rabbia.
    Gli israeliani lo vogliono fuori. Arresto. Espulsione in Giordania. Ma non lo silenziano: dall’esilio continua a parlare, a dirigere, a chiamare il suo popolo.

Gli Accordi di Oslo aprono spiragli. Torna in Cisgiordania. Diventa deputato nel Consiglio Legislativo Palestinese. Non risparmia critiche nemmeno ai suoi. Settembre 2000. Sharon sulla Spianata delle Moschee. La scintilla. Scoppia la Seconda Intifada. Barghouti è il volto pubblico della rivolta, la voce che rifiuta la resa. Israele lo accusa di guidare il Tanzim, il braccio armato di Fatah.

Aprile 2002. Ramallah è sotto assedio. Lo catturano. Processo farsa, condanna scritta in anticipo: cinque ergastoli più quarant’anni. Non per quello che ha fatto, ma per quello che rappresenta. Dietro le sbarre non smette di lottare. Nel 2006 scrive il Documento dei Prigionieri: chiede unità tra Fatah e Hamas, un fronte comune per la libertà. Nel 2017 guida uno sciopero della fame di massa. Lo stomaco vuoto come arma. Le carceri tremano. Nei sondaggi è il primo, il più amato, più di Abbas e Haniyeh.

Gli occidentali lo chiamano “il Mandela palestinese”. La sua foto esce dai muri del carcere e diventa bandiera. Dopo il 7 ottobre, la repressione israeliana diventa ancora più feroce. Barghouti finisce in isolamento. Torturato. Privato del sonno. Affamato. Ma non piegato.

Marwan Barghouti è la guida. Nonostante le catene, parla ancora.
E quando sarà il momento, sarà la sua voce – roca, ferita – a riaprire la storia.

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