Ott 9, 2025 | Articoli

L’UE CON GLI ANFIBI ESULTA PER IL PROPRIO FUNERALE

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Nel vertice di Copenaghen la soluzione bellica è entrata con ulteriore enfasi nell’agenda di una élite avviata al tramonto e per questo ancora più pericolosa nel colpo di coda.
La padrona di casa Frederiksen gongola perché “abbiamo il mandato per abbattere i droni” e i jet russi in caso di sconfinamento.
La Baronessa in cerca di guai, da par suo, denuncia che “la Russia ci sta mettendo alla prova”, perciò ordina la prosecuzione delle manovre della guerra ibrida: “dobbiamo riarmarci”.

Per fare un altro dispetto strategico a Mosca, dopo aver allertato la Georgia prende di mira anche la Moldavia, povera di risorse naturali ma ricca di vino.
Poco importa che, lanciandosi all’avventura per il controllo di Chisinau, l’Ue penetri in un autentico ginepraio etnico-linguistico-
culturale, con territori senza Stato (Transnistria) e infiniti serbatoi di violenza aizzati dagli impenetrabili micropoteri privati.

La logica della guerriglia multilivello esige la necessità di addestrare una opinione pubblica ancora refrattaria alle prove generali di mobilitazione (se ne lamenta Angelo Panebianco sul Corriere della sera). Dai droni alle interferenze nell’esercizio del voto, dalle crepe nella sicurezza informatica alle agenzie di disinformazione, ogni baruffa è buona per abituare i cittadini del Vecchio continente alla martellante evocazione del rombo dei cannoni.

Se però i confini attuali sono già malsicuri, tanto che dinanzi alla marcia dell’orso siberiano occorre destinare spese folli per la difesa integrata, perché incrementare ulteriormente l’incertezza esistenziale con altre espansioni ad Est?
Semplice, per la guerra etica in nome della democrazia che, spiega Panebianco, impone di accettare come ineluttabile l’ipotesi che una così nobile impresa possa “implicare una sorta di militarizzazione strisciante di ampi aspetti della vita civile”.
Insomma, parafrasando la formula di un noto georgiano degli anni Trenta, il rafforzamento massimo della democrazia esige la sua estinzione.
Ma è davvero una grande idea quella di requisire i diritti ancora superstiti e di distribuire in cambio i fucili?

Al palazzo di Christiansborg la sola lingua adoperata dai leader con piglio marziale era quella candida delle munizioni.
Non è normale, del resto, che i tre posti chiave della Commissione europea siano dati in appalto alle Repubbliche baltiche.
Con appena sei milioni di abitanti complessivi, nessuna tradizione democratica alle spalle, e anzi con una violazione sistematica dei diritti delle cospicue minoranze russe in corso, gli eredi delle atroci dittature brune degli anni Trenta gestiscono Esteri (Kallas), Difesa (Kubilius) ed Economia (Dombrovskis).
Non poteva trovare politici di miglior scuola la custodia della civiltà occidentale.
Che regimi con profonde memorie antidemocratiche e animati da un gretto spirito guerriero antirusso dettino i paradigmi della nuova Europa, sentenzia il ripiegamento del progetto originario di pace, inclusione, dialogo.
La follia dell’alienazione della sovranità in loro favore ha un senso soltanto in vista della trincea (il Commissario all’Economia proclama che “l’Ue è già in una guerra ibrida con Mosca”).

Il lettone Dombrovskis è certo che il Cremlino si prepara ad “invadere altri paesi dell’Unione europea e della Nato”.
La ricerca di un pretesto qualsiasi per ordinare la zuffa finale (da ultimo l’operazione hacker contro i sistemi di chek-in) è nell’ordine delle cose.
E’ introvabile nei grandi giornali, che vi avevano immancabilmente scorto “l’ombra di Mosca”, la notizia della matrice inglese del cyberattacco che aveva messo in ginocchio gli aeroporti di Londra, Berlino e Bruxelles. Lo stesso destino è toccato alla vicenda della piccionaia abbattuta da un drone in Polonia, caduta in oblio non appena è stato appurato che l’armata rotta non c’entrava nulla. Forse il velo di ipocrisia lo ha rotto La Stampa che così ha titolato: “Zelensky agli alleati: basta perdere tempo”.
Con il termine “alleati” viene finalmente gettato ogni residuo pudore linguistico: l’Italia, con l’Ue, è in guerra. Lo statuto della neutralità, con gli obblighi connessi di astensione, imparzialità, prevenzione, è caduto da un pezzo. Attraverso la fornitura massiccia di armi, denaro, addestratori, intelligence, supporto logistico, già veniva attestata la pratica della guerra per procura. Ora l’utilizzo della categoria di “alleanza” va persino oltre.
Essa comporta un diretto coinvolgimento nelle operazioni, con la conseguente usura del principio di diritto internazionale per cui il territorio dei paesi non belligeranti è inviolabile.

Ardua diventa in effetti ogni classificazione giuridica della esatta condizione in cui si sono cacciati i governi europei.
La confusione aumenta quando l’Ue (senza coinvolgere l’Onu), dopo aver parlato ufficialmente di un “sostegno politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico” che ha già raggiunto i complessivi 173,5 miliardi di euro (di cui 63,2 per le armi), mette nel mirino i beni bloccati della Banca centrale russa, quantificati in 210 miliardi.

Oltre all’invio di nuovi ordigni in grado di colpire in profondità, viene adombrato, tra i mugugni della Bce, il dirottamento a vantaggio dell’Ucraina di 140 miliardi di riserve finanziarie russe ora congelate, affinché Kiev – come dichiara Merz – “rimanga in partita”. La confisca degli asset depositati presso il gruppo belga Euroclear, il nuovo oro di Mosca, stravolgerebbe però i cardini del diritto privato internazionale, minando i fondamenti della proprietà e della sicurezza del possesso dei beni. “Viviamo in tempi difficili”, avverte Ursula. Politica, diplomazia, confronto sono termini banditi dal lessico europeo per valutare le esigenze di sicurezza accampate da Putin. Tutto viene concentrato nelle iniziative propedeutiche ad un conflitto armato. Simili opzioni lambiscono pericolosamente le condizioni per cui nel diritto internazionale diventa lecita una risposta armata indirizzata nel territorio ostile
(N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino, 2014, p. 343).
Il giurista tedesco Jochen Abraham Frowein già da tempo ha richiamato la categoria di co-belligeranza come misura della intensità della intromissione euro-atlantica in Ucraina.

Egli riflette sulle basi normative del diritto di guerra, quindi sulla liceità di attacchi armati contro forze militari e spazi nemici.
Se la Russia non ricorre a queste rappresaglie contro i 27, non è certo per un qualche freno giuridico. Il suo timore è che l’escalation la trovi debole al cospetto della soverchiante superiorità delle truppe occidentali. L’uso del nucleare tattico, a quel punto, diventerebbe per Mosca la sola alternativa per non soccombere.
La tracotante alleanza tra le cancellerie impazzite e i media paranoici (un editoriale del Corriere della sera avverte che “non bisogna chiedere se, ma quando Putin attaccherà”) sta spingendo in direzione della catastrofe.
L’Europa, che va a passo ormai cadenzato, tace sul diritto internazionale, sulla salvaguardia delle istituzioni globali, sull’attivazione di un’alternativa diplomatica, sulla progettazione di un ordine multipolare. Solo un movimento di popolo, per “bloccare tutto” come dicono a Parigi, può fermare il piano blindato caro alla von der Leyen e ai capitani di Vilnius, Riga e Tallinn che vogliono appiccare il fuoco ovunque. Già dato, Baronessa, già dato.

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