di Barbara Schiavulli

Il 4 settembre Radio Bullets salperà con la Global Sumud Flotilla verso Gaza. Da quasi 700 giorni nessun giornalista indipendente entra nella Striscia. Solo pochi, scelti, embedded con l’esercito israeliano, che si sono lasciati penetrare da una delle più serrate propagande messe in atto in un conflitto, sono stati fatti entrare.
Per chi come me ha raccontato la Palestina per 28 anni, restare fuori è stato uno strappo. Come non poter entrare in Afghanistan, o in Venezuela. Paesi che escludono chi non piega la schiena al potere.
Già due volte negli ultimi mesi le flottiglie hanno provato a forzare il blocco. E due volte ho pensato: avrei voluto esserci.
Perché arriva un momento in cui scrivere, raccontare, registrare non basta più. Il giornalista è testimone, ma l’essere umano che è in me, non può solo assistere.
La grande differenza questa volta, rispetto alle altre è che non sono una o due barche, con un manipolo di persone coraggiose. Non sono neanche dieci, o venti. Sono più di 80. Sono centinaia di persone. Sono una forza storica.
Il 7 ottobre ha segnato un punto di non ritorno.
Israele ha costruito, mattone dopo mattone, una società pronta ad accettare tutto in nome della propria difesa. Ma schiacciare un popolo per vivere non è democrazia. È apartheid.
E oggi assistiamo a un genocidio in diretta. Fame, bambini morti, medici e giornalisti uccisi, operatori umanitari arrestati, città cancellate. E intorno un mondo civile che guarda, si indigna… e poi torna a casa. Come se fossimo anestetizzati, incapaci di vedere perché vedere significherebbe agire.
Ma quello che più mi lacera è lo scollamento totale tra società e potere. I governi non perseguono più il benessere delle persone, ma interessi economici, militari, di élite. Le leggi internazionali sono saltate, chi indaga sui crimini viene perseguitato. Viviamo in un mondo distopico, dove lo Stato non è più il popolo. È un’entità a sé. E questo è spaventoso.
E allora? A che serve raccontare, se nulla cambia?
Perché raccontare resta necessario. Perché la società civile, prima o poi, si riprenderà quello che le è stato rubato: le redini del proprio destino, fatto non di confini e guerre, ma di accoglienza, cultura e giustizia.
Salire su una barca della Flotilla, sapendo che potresti essere fermata da uomini armati in acque internazionali, non è una scelta leggera. Ma ci sono momenti in cui non basta fare la cosa giusta. Bisogna fare quello che si deve. Per noi e per le generazioni future.
Opporsi con la voce, con il corpo, a ciò che accade da ottant’anni contro un popolo. Non dimentico le altre catastrofi – Afghanistan, Sudan, Yemen, Myanmar – ma ora possiamo essere qui.
Centinaia di persone salperanno: medici, avvocati, artisti, giornalisti, attivisti. Ognuno con la propria storia, ma con un obiettivo comune: rompere un frammento di ingiustizia.
Riusciremo? Non lo so. Forse non importa.
Quello che conta è provarci. Perché i palestinesi devono sapere che non sono soli. E il mondo deve sapere che non siamo condannati all’impotenza. Che c’è ancora chi ha il coraggio almedi provare.
Fonte: Barbara Schiavulli, Direttrice responsabile di www.radiobullet.com, 25 Agosto 2025
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