Ago 12, 2025 | Articoli

Perché l’Occidente non guiderà più la storia del mondo

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Non occorre possedere speciali virtù profetiche per predire ai paesi dell’occidente (vale a dire Europa e USA per come si sono configurati negli ultimi due secoli), un avvenire di disgregazione e di inarrestabile declino. Sarebbe sufficiente fermarsi ai dati macroeconomici e sociali più noti per farsi un’idea alquanto realistica del futuro che li attende. Gli USA sono chiusi nella trappola di un debito crescente e insostenibile, incapaci di limitare la loro dispendiosa postura di impero guerresco, privati da decenni della loro base manifatturiera, spinti a fare soldi con i soldi, costretti a governare un paese lacerato dalle disuguaglianze, in cui la classe media, base della stabilità politica americana, arretra ormai da decenni, mentre in tanti stati la condizione di povertà supera il 10% della popolazione. Un’economia di servizi che vuole vivere sul debito pubblico e sull’indebitamento privato dei cittadini, sul dominio del dollaro. Sotto questo profilo l’Europa non sta molto meglio anche a prescindere dallo scenario inquietante che si schiude per il Vecchio Continente dopo gli accordi con Trump del 27 luglio. Vent’anni di perdita di produttività delle industrie dell’Unione, ci ricorda il Rapporto sul futuro della competitività europea di Mario Draghi del 2024. Nel quale rapporto cogliamo la previsione più clamorosa del declino europeo, l’indicatore più indiscutibile del regresso delle nazioni: la perdita di popolazione. «Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro dell’UE si ridurrà di circa 2 milioni di persone ogni anno, mentre il rapporto tra lavoratori e pensionati dovrebbe scendere da circa 3:1 a 2:1». Ricordiamo di passaggio quel che è successo nel cuore del Vecchio Continente. Con la guerra in Ucraina la rampante locomotiva d’Europa, la Germania, è andata a schiantarsi nelle secche di una classe dirigente nana, che ha ubbidito prontamente agli USA, ha accettato di buon grado il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, rinunciando ai rapporti di scambio con la Russia su cui aveva fondato un modello di crescita di successo. Ora ha imboccato la strada, davvero ricca di potenzialità, per diventare la “più grande potenza militare dell’Europa”. Immaginiamo con entusiasmo quanta ricchezza e benessere apporterà al suo popolo e al resto d’Europa col patrimonio di carri armati, bombe e missili di cui si doterà…

E tuttavia, per indicare la linea di tendenza rovinosa verso cui siamo diretti, basterebbe soffermarsi superficialmente sulla parabola disegnata dall’Italia – il paese politicamente più fragile e per questo più rappresentativo per il ragionamento che intendo svolgere – per comprendere verso quali mete luminose tende il destino del Vecchio Continente. Chi si ricorda che nel 1991, secondo un rapporto di Business International, l’Italia era diventata il quarto paese più industrializzato del pianeta, dopo Stati Uniti, Giappone e GermaniaOggi, dopo 30 anni di cura europea e di buon governo nazionale (governi di centro-destra e di centro-sinistra) è scomparsa dalle classifiche, ospita sei milioni di poveri assoluti, perde di anno in anno quote di popolazione, che diventa sempre più vecchia, è segnata da squilibri territoriali drammatici, con vastissime aree che si vanno desertificando anche sotto il profilo fisico.

Ma le previsioni sul futuro dell’occidente diventano ancora più credibili se facciamo almeno un cenno ai paesi che stanno emergendo dal loro passato coloniale, si liberano dalla tirannia del debito gestito dal Fondo Monetario Internazionale, dai ricatti e dalle imposizioni del dollaro statunitense, dal saccheggio dei propri beni da parte delle grandi imprese occidentali, perpetrato attraverso la corruzione delle vecchie élites locali. Pur senza qui considerare la Cina, ormai la vera prima economia del pianeta, bisogna tener presente che i paesi del fronte dei Brics, e altri nella stessa condizione, sono in costante crescita demografica, abitati da giovani desiderosi di acquisire benessere, galvanizzati dal sentirsi parte di comunità orgogliosamente in ascesa e sempre più indipendenti dal vecchio padrone europeo o americano. Nulla di più lontano dalla nostra gioventù, smarrita da anni nella sua disperazione nichilista. Figuriamoci ora che le promettiamo un entusiasmante avvenire di guerra. Ma un aspetto davvero poco considerato dell’ascesa tumultuosa di questi paesi è la coscienza storica che ispira la condotta delle nuove élites nazionali, consapevoli del passato di saccheggi, umiliazione e massacri subiti ad opera delle colonizzazioni occidentali e del neocolonialismo americano. Una nuova consapevolezza geostrategica orienta il Sud del mondo di cui noi ignoriamo tutto, a parte la caricatura della nostra stampa, servilmente e stoltamente impegnata a denigrare chi insidia il nostro fallimentare suprematismo bianco. In realtà in questi ultimi 30 anni il dominio unico americano è andato in frantumi, qualcuno dovrebbe informare i governanti europei e la stampa che li illumina, perché si acconcino a fare i conti con un gran numero di nuovi e agguerriti comprimari.

E tuttavia il cuore del declino dell’occidente è, per contrasto, osservabile proprio qui, nella variegata geografia di questo Sud e di questo Oriente in cammino. Non solo nella semplice ascesa economica di tanti paesi, ma nel nucleo che sta alla base del loro successo e che l’occidente ha perduto: la guida di un forte potere statale. Condizionati dal nostro pregiudizio democratico, dalla nostra rocciosa ignoranza, dal nostro indomito razzismo, noi bolliamo come autocratici i regimi di questi paesi (in gran parte effettivamente illiberali, secondo loro culture e tradizioni) e perciò guardiamo ai loro successi non come all’emergere di una nuova geografia delle relazioni internazionali, che si sottrae al dominio unico degli USA, ma come a confuse minacce alle nostre svuotate democrazie.

Così ci sfugge non solo che essi puntano a un ordine di cooperazione e di pace mentre noi democratici ci disponiamo e investiamo nella guerra – dopo tutte le guerre con cui abbiamo insanguinato il mondo negli ultimi 100 anni – ma anche un aspetto decisivo del mutamento d’epoca che si è consumato sotto i nostri occhi. Questi paesi hanno conservato un bene supremo che USA ed Europa hanno rovinosamente perduto: la sovranità del potere politico statuale. Oltre 30 anni di disfrenamento capitalistico, accompagnato dalle sirene della retorica neoliberista, hanno distrutto il potere superiore che per tutti i secoli dell’età moderna aveva governato gli interessi generali dei paesi e soprattutto degli stati-nazione. La politica moderna, quella che nasce in idea con le prime geniali teorizzazioni di Machiavelli, è stata sopraffatta, soffocata sotto una inedita forma di neofeudalesimo, capeggiato da potentati economici e finanziari che l’hanno privatizzata, comprata a pezzi come si compra una qualsiasi azienda. La tradizionale, complessa forma di governo degli interessi collettivi è stata di fatto privatizzata, divisa fra diverse corporazioni, mentre il ceto politico, che apparentemente tiene in piedi il simulacro della rappresentanza democratica, è ridotto a una corporazione subalterna, che svolge compiti ancillari. Serve, dietro compenso, i poteri finanziari più o meno grandi, per esempio perché saccheggino il suolo delle nostre città (l’Italia, Milano in testa, offre un bel repertorio); è impegnata, con l’aiuto della stampa, a elaborare retoriche per convincere i cittadini delle buone ragioni delle élites capitalistiche anche nelle versioni affaristiche più degradate. In breve il capitalismo, privato del suo antagonista storico, il comunismo, che ha disfatto i partiti operai e popolari, messo all’angolo i sindacati, intaccato gli equilibri vitali del pianeta, sciolto nell’acido dell’individualismo edonistico quel che era stata per secoli la società, ha divorato anche il potere pubblico che gli forniva visione generale e qualche elemento di indirizzo strategico.

Osserviamo oggi quest’opera di distruzione persino nello stato di diritto più antico e più solido dell’occidente, quello degli USA. Del resto come poteva andare diversamente dopo che, per decenni, i cosiddetti rappresentanti del popolo accedono al Congresso grazie ai milioni di dollari con cui i vari potentati finanziano le loro dispendiose campagne elettorali? Come possono rispondere agli interessi della grande massa dei cittadini americani dopo gli obblighi contratti con così generosi ed esigenti donatori? Perciò Partito democratico e Partito repubblicano sono indistinguibili per un aspetto fondamentale: sono due facce di un’unica plutocrazia. Trump, ad esempio, questo personaggio bizzarro e inafferrabile, rappresenta in realtà, plasticamente, l’implosione della classe dirigente USA, divisa tra lobbies finanziarie ebraiche (che decidono della politica estera USA in Medio Oriente), grandi fondi del risparmio gestito, apparato militare industriale, che cerca nella guerra i propri profitti e sbocchi di mercato, oligarchi dell’industria elettronica e mediatica che rivendicano potere di comando proporzionale alla loro ricchezza, e, in ultimo, la grande massa della popolazione senza voce, che non si sente rappresentata dal Congresso e si percepisce da anni come il 99% più povero del paese. E anche in questo caso, per avere un’idea del cammino percorso dall’America in tale direzione, basterebbe pensare alla scomparsa della retorica del “sogno americano”, o ricordarsi – per percepire quanto tutto è mutato – dell’arrogante affermazione imperiale che fece a suo tempo George Bush senior, secondo cui «lo stile di vita americano non è negoziabile». Quello stile di vita è sempre più per pochi, e la sua incarnazione più rappresentativa stanno diventando le fila dei senza tetto e dei tossicodipendenti accampati nelle strade sempre più affollate di reietti delle grandi città americane.

Ma la traiettoria più evidente del declino dell’occidente e soprattutto dell’Europa si scorge anche nei meccanismi suicidi escogitati per la formazione e la selezione delle loro élites. È il caso di ricordare che per quanto riguarda il potere statale gli imprenditori capitalistici o gli esponenti della finanza entrano ed escono dalle stanze delle istituzioni pubbliche senza ormai destare scandalo. Il sistema del revolving door, delle porte girevoli, è in funzione da tempo. Oggi Trump è il caso più eclatante, benché l’Italia lo abbia anticipato con Berlusconi, mentre la Germania non lo è di meno, con Friedrich Merz, un uomo di Black Rock, il gigante del risparmio gestito, diventato senza tanti preamboli cancelliere federale. Un segnale evidente non solo dell’avvenuto soggiogamento del potere statale agli interessi diretti del capitale, ma anche dell’incapacità dei partiti di selezionare quadri dirigenti autonomi, politici esperti, per il governo dei paesi. Una grande tradizione del ‘900 è stata spazzata via, perché oggi i partiti non sono più scuola di nulla. Non per niente in Italia si esalta tanto Mario Draghi, eccellente manager, un uomo della finanza internazionale, ma mediocre politico, scambiato per uno statista.

Ma la riflessione vale più in generale per la formazione culturale dei quadri dirigenti. Oggi vediamo Trump impegnato a colpire le prestigiose università d’America, la base più importante dei successi culturali e scientifici di quel paese. Ma i governanti europei, a partire dal “Processo di Bologna” del 1999, hanno cominciato a curvare l’organizzazione e i programmi delle università a finalità sempre più strumentali e subalterne alle logiche dello sviluppo economico. Anche la scuola e l’intero sistema formativo, soffocato sotto un crescente apparato di controllo burocratico, hanno seguito la stessa strada. Le nostre istituzioni accademiche producono oggi efficienti soldatini, chiusi nei propri specialismi, isolati nei propri compiti produttivi, o asfissiati da impegni di rendicontazione, tagliati fuori da ogni sguardo sulle cose del mondo. Il capitalismo ha manomesso gravemente le nostre università, una delle più geniali creazioni dello spirito europeo, e ora ne ha fatto dei corpi spenti, segmentati, privi di visione generale, civilmente passivizzati. Per avidità di profitti e volontà di controllo sociale, il capitalismo si è autocastrato, e perciò va producendo menti mediocri e asservite. Non è certo un caso (ma anche esito della potente manipolazione dei media) che dopo oltre tre anni di pubblicazione di libri, saggi, articoli, filmati, documenti, che hanno chiarito come la guerra in Ucraina sia stata ordita e combattuta dagli USA, e come uno dei suoi scopi fosse, e sia ancora, quello di colpire le economie dell’Europa, di impedire che si creasse una grande area di traffici euroasiatica, i nostri intellettuali si rifiutino di capirlo. Non riescono ad accettare tale verità neppure oggi che l’amministrazione Trump costringe alla rovina i bilanci degli stati europei, perché continuino, con armi acquistate in USA, la guerra che questi hanno perduto.

Ma la mutilazione politica e morale più grave che l’occidente ha subito di recente appare necessariamente il comportamento di gran parte dei governi europei, dell’Unione, della maggioranza del Parlamento, di fronte al genocidio del popolo palestinese a Gaza. Qui, in quest’angolo orientale del Mediterraneo, “la più antica democrazia del mondo” e “l’unico stato democratico del Medio Oriente” hanno perpetrato, davanti all’opinione pubblica internazionale, il più efferato genocidio del secolo. L’onore di questi due paesi, che si sentono orgogliosamente occidente, ove mai ne conservassero traccia, è rimasto sepolto sotto le macerie di Gaza. Ma non sono soli. Sappiamo del sostegno militare dato a Israele dal Regno Unito, dalla Germania e dall’Italia. E osserviamo sgomenti che nessuna sanzione è stata comminata allo Stato genocida, che uccide gli inermi con le bombe e con la fame, mentre l’Unione continua a sanzionare la Russia. Un esempio di coerenza e di dignità che tutti i paesi del mondo stanno ammirando da tempo e che farà brillare di inedito prestigio l’immagine internazionale di tutto l’occidente. E però non solo i governi, il ceto politico si stanno coprendo di tanta gloria. Non sono da meno per impegno e coerenza giornalisti, intellettuali, artisti. Mai tanta ignavia era apparsa sotto i nostri cieli, di fronte al massacro di un popolo indifeso, osservabile giorno per giorno, mese dopo mese, dalla tranquillità delle nostre case. La confidenza che le nostre élites hanno contratto con la barbarie è l’ultimo tassello di una caduta di civiltà che negli ultimi tempi si è fatta precipitosa. Dico élites, non a caso, perché il popolo non ha voce e il popolo inorridisce di fronte ai massacri, non vuole la guerra, come mostrano tutte le statistiche rese pubbliche in Europa in questi anni. E qui sta la grande e grave contraddizione su cui le forze progressiste dovranno far leva. Tra i gruppi dirigenti e la grande massa dei cittadini, si è spalancato un divario senza precedenti storici. Un altro aspetto conclamato del declino dell’occidente. Un distacco, un restringimento delle basi di consenso talmente marcato che a eleggere i governi è ormai una minoranza di cittadini. E su questa base ristretta, oltraggio estremo alla democrazia, i governi delle minoranze si arrogano il diritto della scelta più grave che uno Stato possa intraprendere: un programma di guerra.

Ma questa è anche la grande contraddizione che può aprire gli spazi a un’alternativa, per lo meno in Europa. Governanti, politici, media padronali, élites intellettuali hanno oggi di fronte il più grande ostacolo della loro storia: nascondere le loro multiple sconfitte, convincere centinaia di milioni di europei della necessità di investire ingenti risorse in armamenti, di predisporsi alla guerra, di vivere negli anni a venire entro una bolla di minacce e di paura, senza che nessun nemico prema alla porte, senza che nessuno ci minacci. La Russia non ha nessun interesse neppure a sfiorarci, e le guerre, com’è noto, si fanno per qualche interesse. Com’è facile immaginare l’impegno politico più rilevante che i gruppi dirigenti porranno in atto sarà quello di ingannare i cittadini, di convincerli, elaborando menzogne su menzogne, della necessità di difendersi da un nemico che non si vede, di intraprendere una strada di sacrifici per cui non si scorge alcuna necessità. “Vaste programme” direbbe De Gaulle, perché i cittadini sanno guardare il cielo e accorgersi che nessuna tempesta è in arrivo. E un vasto programma fondato su una così colossale fandonia è privo di gambe per camminare. Perciò un fronte ben organizzato di forze progressiste può seppellire politicamente questi gruppi sotto le macerie della propria disfatta. Qualunque sia il destino dell’Unione, l’Europa – che a differenza degli USA non è un impero – può trasformare il proprio ridimensionamento geostrategico in occasione per svolgere un nuovo ruolo, in cui vengono esaltati i suoi talenti e le sue eredità migliori, in un mondo di rapporti pacifici fondati sulla pari dignità di tutti i popoli.

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