Ago 10, 2025 | Articoli

IL PREGIUDIZIO DEMOCRATICO

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Ci sono pochi dubbi sul fatto che analisti, esponenti politici, giornalisti del mondo occidentale fondano la propria scelta di campo (o coprono la loro malafede), sovrapponendo il proprio giudizio sul regime interno dei paesi alle loro posizioni di politica estera.

Se gli stati non sono democratici – secondo gli standard decisi in occidente – qualunque sia il loro comportamento, in qualunque controversia, hanno torto in partenza, sono dalla parte sbagliata della storia. Il caso più recente di applicazione di tale criterio l’abbiamo osservato in occasione della cosiddetta “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran. Il fatto che il governo iraniano abbia sottoscritto il trattato di non proliferazione, si sia sottoposto per anni ai controlli degli ispettori dell’AIEA, abbia trattato da ultimo con l’amministrazione Trump non è stato sufficiente a evitare il bombardamento da parte di Israele e degli USA. Poiché l’Iran è uno stato teocratico (anche se la sua realtà effettiva non corrisponde alla caricatura che ne fanno i media occidentali) gran parte dei governanti e dei commentatori europei si è sentita autorizzata ad affermare, senza alcuna vergogna, che Israele – il quale possiede un arsenale nucleare e non si sottopone ad alcun controllo – “ha il diritto di difendersi” e dunque di bombardare chi crede.

Ma il doppio standard degli esponenti democratici non è solo fallace nel giudicare la politica estera degli stati sulla base dei loro ordinamenti interni. Alla luce dell’analisi storica esso appare ingiusto e infondato anche nel giudizio di merito sulla democrazia che si sceglie come criterio di valore. Prendiamo il caso di Israele. “L’unica democrazia del Medio Oriente”, ha effettivamente conosciuto, al suo interno, esperienze democratiche importanti, perfino socialistiche, con l’istituzione dei Kibbuz, e un certo cosmopolitismo tollerante. Ma queste si svolgevano, almeno a partire dalla guerra del 1967, sulla base dell’occupazione dei territori palestinesi, su una politica di apartheid di un altro popolo, violando il diritto internazionale. Che demo-crazia, potere del popolo, è quella che si fonda sull’oppressione di un altro popolo? Oggi, dopo l’involuzione autoritaria degli ultimi decenni, dopo che nel 2018 Israele è diventato lo “stato-nazione del popolo ebraico”, mentre consuma un genocidio a Gaza, definirlo una democrazia è un palese oltraggio alla verità.

Ancora più agevole sarebbe mostrare, solo restando nell’ambito degli ordinamenti interni, quanto sia inappropriato definire gli USA uno stato democratico. Emmanuel Todd lo definisce, a ragione, una “oligarchia liberale”, vale a dire uno stato di diritto, ma in mano a ristretti gruppi di potere. Basterebbe ricordare come in America perfino il rito elettorale sia diventato un affare per milionari. Del resto l’amministrazione Trump si è incaricata di rendere evidente questa realtà anche ai più distratti. Ma proprio gli USA mostrano quanto fallace e ingiusto sia elaborare criteri di valore e fare scelte di campo sulla base della della loro tradizione democratica. Come si fa a schierarsi con un paese perché lo si considera democratico, mentre opprime altri popoli che hanno diversi ordinamenti, frutto della propria particolare storia, cultura, colonizzazioni subite? È senza valore il fatto che gli USA non solo hanno “esportato” rovinose democrazie, ma molto più spesso hanno abbattuto regimi democratici per imporre dittature? Come ha ricordato un analista americano che ha potuto esaminare negli archivi le tabelle delle operazioni della CIA: «Gli Stati Uniti hanno supportato movimenti autoritari in almeno 44 su 64 operazioni segrete di cambio di regime, incluse almeno sei operazioni in cui cercarono di rimpiazzare governi democratici liberali con regimi autoritari illiberali» (A.O. Rourke, Covert regime change. America’s secret cold war, Cornell University Press, 2021).

Cosi oggi quello che ormai appare come un vero pregiudizio, la democrazia presunta quale criterio di valore per giudicare le relazioni internazionali, impedisce a molti intellettuali e osservatori onesti di scorgere nell’organizzazione dei Brics il fronte di un nuovo, equo, pacifico, ordine mondiale. Com’è nel loro programma, solennemente riproposto a Kazan nel 2024 e a Rio de Janeiro il 6-7 luglio scorso, i grandi paesi che la compongono perseguono una relazione economica paritaria e cooperativa tra gli stati del globo, che sfugga al dominio unipolare degli USA. Un progetto, dunque, di assetto multilaterale, unica via per impedire un conflitto mondiale. Il fatto che gran parte di questi paesi siano regimi illiberali è ragione sufficiente per non guardare con interesse e favore al loro progetto, visto che quello dell’Unione Europea è la guerra contro la Russia e quello degli USA il conflitto contro la Cina?

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