di Nima Hasan
Poetessa e scrittrice palestinese
“MI CHIAMO NIMA HASAN. Sono madre, custode di sette bambini. Lavoro, quando il destino me lo concede, come assistente sociale. Per me non è solo un lavoro, è un compagno di vita, l’unico. In lui riverso ogni fardello, ogni tormento, perché la mia vita resti a galla.
Scrivo. Scrivo romanzi, poesie, lettere. Ciò che vedo, lo scrivo. Ciò che sento, lo scrivo. E forse per questo la Storia, quando passa tra le mani di uno scrittore, diventa sempre una storia sentimentale. Ho cominciato a scrivere per salvarmi. In arabo diciamo: “Aggrapparsi a una paglia in mezzo al mare per non annegare”!
La mia paglia era la scrittura. Ma ho scoperto che era dolce annegare nella poesia, più dolce che salvarsi. Varcai la soglia dell’Unione degli Scrittori Palestinesi, e mi sussurrarono che mai nessuno vi era giunto con tale celerità. Forse ogni parola che scrivo, ogni scena che guido, è un ritratto mascherato di Gaza, un’immagine velata che si lascia appena intuire.
Ho lasciato Gaza una sola volta.
Gaza mi somiglia. Io, quando sto con qualcuno, mi confondo con lui. Immagina Gaza, che mi è compagna da sempre.
Ho vissuto molte guerre. Con ciascuna ho perso qualcuno che amavo. La perdita ha una data fissa, incisa nel cortile di casa. In una guerra, la mia casa è crollata mentre ero dentro. Uscii davanti ai carri armati sventolando una bandiera bianca: una camicia da notte, appesa a un manico di scopa. Ho abitato in molte case, o in quello che ne restava. La seconda Nakba era già in corso. Il mondo non ci vedeva, se non quando i morti si contavano a migliaia, o quando il mercato azionario ne tremava. Nella terza settimana di guerra, un missile di una tonnellata e mezza colpì la casa accanto. Sei metri di terra lo accolsero, trattenendo nel grembo l’esplosione. Fuggimmo tutti in strada, la morte alle nostre spalle come un’ombra affamata, e all’ultimo istante, per la misericordia di Dio, essa distolse lo sguardo e passò oltre. Partii coi miei figli, che tremavano di freddo, di paura, e di emozioni antiche, che sfuggono alla parola. Fummo sfollati. Lo sfollamento ci inseguiva, noi fingevamo di non temerlo, lui trovava sempre una fessura da cui rientrare. Questa guerra ha sette teste. Ovunque ti giri, una ti morde.
Ho vegliato notti intere, temendo di muovermi, per paura che un missile, nell’ombra della mia assenza, mi strappasse via dai miei figli, o peggio, li portasse via lasciandomi sola. Mi rannicchiavo tra loro, scudo e guardiana, finché il sonno non li avvolgeva tra un’esplosione e l’altra. All’alba, mi alzavo. File per l’acqua. File per il pane; prima che il grano diventasse arma. Ci spartivamo i compiti. I più piccoli avevano il più arduo: non tremare mentre il cielo cadeva. A volte tornavo a mani vuote, e nei loro occhi spegnevo la delusione con fiabe sussurrate, carezzate dalla luna. Ma quando il grano, pagato a prezzo di lacrime, arrivava, alzavo il capo come un’eroina ferita, sorridendo alla battaglia che nessuno vedeva. Poi i compiti crebbero: medicinali introvabili, farina più cara dell’oro, portare aiuti alle tende. Nel frattempo, il mio cuore sempre stretto alla maniglia della porta, perché la morte non la varcasse e posasse lo sguardo sui miei figli.
Più vecchia si fa la guerra, più pesante è la sua mano.
E la vita? la vita si rivela solo quando apri la mano, e offri tutto ciò che possiedi, sbandierandola alta come un vessillo, perché il mondo, pur misero e cieco, sappia che sei ancora qui. Non siamo numeri.
Ma sappiamo contare i morti. Uno a uno.”
Fonte: IL FATTO QUOTIDIANO, Martedì 12 Agosto 2025

0 commenti