Ago 6, 2025 | Articoli

FARE UN PO’ DI CHIAREZZA. LA CREAZIONE VIOLENTA DI ISRAELE. RIPERCORRIAMO A TAPPE LA STORIA DEL SIONISMO.

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La creazione violenta di Israele

La nascita dello Stato d’Israele nel 1948 non fu il coronamento di un sogno pacifico di ritorno, ma l’esito brutale di un progetto di pulizia etnica pianificata. Il cuore tecnico e ideologico di questo progetto fu il Piano Dalet (Tochnit Dalet), elaborato nel marzo 1948 dalla direzione dell’Haganah, l’organizzazione paramilitare che sarebbe diventata l’esercito regolare dello Stato d’Israele (IDF).

Il Piano Dalet rappresentava l’evoluzione operativa dei precedenti Piani Alef, Bet e Gimel, ma a differenza dei suoi predecessori, non si limitava a strategie difensive: contemplava esplicitamente l’occupazione dei villaggi e delle città arabe, la distruzione delle case e l’espulsione della popolazione civile, anche in assenza di ostilità. Secondo Ilan Pappé, “si trattava di un piano quadro, non di un documento puramente tattico. Prevedeva espulsioni di massa, demolizioni e deportazioni — ed era stato approvato ai massimi livelli politici del movimento sionista” (The Ethnic Cleansing of Palestine, p. 36).

Il documento originale, scritto in ebraico burocratico e militare, fu discusso nei comitati direttivi della leadership sionista e messo in atto nelle settimane precedenti e successive alla fine del Mandato britannico. Le sue istruzioni erano chiare: occupare ogni villaggio arabo strategicamente rilevante, disarmarne la popolazione e deportarla al di fuori dei futuri confini dello Stato ebraico. Come evidenziato anche da Benny Morris, “il Piano Dalet fu il primo documento sionista a contenere una pianificazione sistematica dell’espulsione della popolazione araba, non più affidata al caso o al panico di guerra” (Righteous Victims, p. 162).

Non esistevano ordini specifici per ogni singolo villaggio, ma piuttosto un mandato operativo generale applicato con varia intensità da comandante a comandante. Questo ha permesso, a posteriori, a molti apologeti israeliani di negare l’intenzionalità del piano. Ma i dati sono eloquenti: più di 400 località arabe furono attaccate tra aprile e ottobre 1948, e in almeno 80 di esse fu documentata una politica di espulsione sistematica.

Come osserva Tikva Honig-Parnass, “la logica del Piano Dalet era quella della conquista senza convivenza: non si trattava di vincere una guerra difensiva, ma di costruire una geografia nuova, bonificata da presenze non ebraiche” (False Prophets of Peace, p. 38).

In molte zone, l’esecuzione del piano sfociò in massacri, distruzioni simboliche (moschee, chiese, scuole), incendi dei raccolti, contaminazione dei pozzi e atti deliberati di terrorismo psicologico. Non si trattò di eccessi isolati, ma di una strategia coerente per forzare l’esodo palestinese, come confermano anche documenti militari interni resi pubblici da storici israeliani negli anni Novanta.

Il Piano Dalet non fu mai ufficialmente rinnegato. Al contrario, divenne lo scheletro operativo su cui si costruì la mappa dello Stato di Israele del dopoguerra: i villaggi arabi distrutti furono cancellati dalle mappe, i nomi furono ebraicizzati, le rovine furono nascoste da nuove foreste o nuove città.

Come scrive ancora Ilan Pappé, “con il Piano Dalet, il sionismo politico passò dal sogno alla realizzazione pratica: non era più una questione di diritto morale o narrativo, ma di ingegneria demografica e dominio territoriale” (The Ethnic Cleansing of Palestine, p. 51).

Questo piano prevedeva l’occupazione dei villaggi e delle città arabe della Palestina mandataria e, in caso di resistenza o anche solo di sospetto, l’espulsione forzata della popolazione. Fu applicato con ferocia sistematica a partire da aprile 1948, in coincidenza con la fine del Mandato britannico. Ilan Pappé scrive: “La pulizia etnica non fu una conseguenza della guerra, fu parte integrante della strategia: era l’unico modo per ottenere uno Stato ebraico con una solida maggioranza demografica” (The Ethnic Cleansing of Palestine, p. XIV).

Gli attacchi a villaggi palestinesi erano accompagnati da massacri esemplari: il più noto fu quello di Deir Yassin (9 aprile 1948), in cui più di 100 civili, compresi donne e bambini, furono uccisi dalle milizie Irgun e Lehi, organizzazioni paramilitari sioniste guidate rispettivamente da Menachem Begin e Yitzhak Shamir, futuri primi ministri israeliani. Il villaggio si trovava nei pressi di Gerusalemme ed era considerato strategicamente importante per il controllo delle vie di comunicazione. L’assalto, avvenuto all’alba, fu accompagnato da esecuzioni sommarie, stupri e mutilazioni. Molti corpi vennero gettati in fosse comuni. Come riferisce Ilan Pappé, “l’intento non era solo militare, ma psicologico: creare panico e facilitare l’esodo dei villaggi vicini” (The Ethnic Cleansing of Palestine, p. 90).

Anche Benny Morris, pur mantenendo una prospettiva sionista, riconosce che “Deir Yassin divenne il simbolo del terrore, e il suo effetto fu devastante: centinaia di villaggi si svuotarono nei giorni seguenti” (Righteous Victims, p. 164).

La memoria di quel massacro fu talmente forte da spingere centinaia di migliaia di palestinesi ad abbandonare le proprie case, convinti che lo stesso destino li attendesse. Come scrive Tikva Honig-Parnass, “l’uso del terrore fu parte integrata della dottrina militare sionista: la pulizia etnica si realizzava non solo con i bulldozer, ma con il trauma trasmesso da villaggio a villaggio” (False Prophets of Peace, p. 44).

Il caso di Deir Yassin non fu un’eccezione: le stesse dinamiche si verificarono a Tantura, Lod, Safsaf, al-Dawayima, Ein al-Zeitun e in molte altre località. A Tantura, secondo le testimonianze raccolte da Teddy Katz e confermate da fonti orali e militari, più di 200 civili disarmati furono trucidati e sepolti sotto il parcheggio dell’attuale spiaggia israeliana. La battaglia per negare questi episodi, anche all’interno dell’accademia israeliana, è ancora aperta.

Come sintetizza Ariel Levi di Gualdo: “Ogni guerra ha i suoi crimini, ma in Palestina nel 1948 fu il crimine a costituire l’atto fondativo dello Stato” (Erbe amare, p. 111).

Secondo i dati dello stesso esercito israeliano, oltre 750.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono sotto minaccia diretta: le loro case furono immediatamente confiscate, i loro villaggi rasi al suolo o assegnati a nuovi insediamenti ebraici. Il profugo palestinese diventò, fin dal primo giorno dello Stato d’Israele, una figura strutturale e ingombrante, ma sistematicamente negata.

Come afferma Benny Morris, storico che pure giustifica in parte il processo: “Ben-Gurion capì che non si poteva avere uno Stato ebraico in Palestina con così tanti arabi, e agì di conseguenza. Lo fece nel modo più logico per un progetto coloniale: rimuovendo la popolazione indigena” (Righteous Victims, p. 139).

Fu la Nakba, la catastrofe, come la chiamano i palestinesi. Oltre 500 villaggi furono distrutti, le moschee demolite, i cimiteri arati, i toponimi arabizzati. Si trattò di una vera e propria cancellazione culturale e geografica. La comunità internazionale, assorbita nel trauma dell’Olocausto, accettò questo processo come inevitabile o addirittura come risarcimento storico.

Come osserva Ilan Pappé: “La tragedia è che la sinistra europea e americana vide nella creazione di Israele un riscatto morale dopo Auschwitz, senza voler vedere che quel riscatto avveniva sulla pelle di un altro popolo innocente” (Dieci miti su Israele, p. 88).

A differenza di altri conflitti, la guerra del 1948 non terminò con un trattato di pace o con la restituzione dei territori conquistati: lo Stato di Israele consolidò le conquiste fatte con la violenza, negò il diritto al ritorno dei profughi, e passò subito a legiferare per rendere permanente l’espulsione. Questo processo legislativo fu parte integrante del progetto sionista: non un semplice effetto della guerra, ma una sua prosecuzione per via giuridica.

La legge più emblematica fu la Legge sulla Proprietà degli Assenti (Absentees’ Property Law), promulgata nel 1950, che stabiliva che tutti i beni mobili e immobili appartenenti a coloro che avevano lasciato il paese tra il 29 novembre 1947 e il 1 settembre 1948, anche per poche settimane, anche se erano cittadini palestinesi nati e residenti lì, venivano confiscati dallo Stato d’Israele. Tali persone vennero definite “assenti” anche quando erano presenti nei territori sotto controllo israeliano. I loro beni vennero trasferiti a un Custode statale, e successivamente distribuiti o venduti a coloni ebraici, istituzioni religiose ebraiche, enti statali o municipali.

Come scrive Ilan Pappé: “Il meccanismo legale fu raffinato, ma la logica era semplice: far sì che l’espulsione diventasse irreversibile. Alla violenza militare seguì la violenza burocratica, per cancellare ogni diritto residuo alla terra o al ritorno” (Dieci miti su Israele, p. 72).

Anche Benny Morris, che giustifica in parte le espulsioni, ammette che queste leggi furono pensate per impedire qualsiasi rivendicazione futura: “Lo Stato si affrettò a blindare giuridicamente la nuova geografia etnica. Ogni traccia palestinese fu rimossa non solo fisicamente, ma anche dalle registrazioni catastali e dai titoli di proprietà” (Righteous Victims, p. 173).

La Legge degli Assenti fu affiancata da numerosi altri provvedimenti: la Legge sul Ritorno del 1950 (che garantiva la cittadinanza automatica a ogni ebreo del mondo), la Legge sulla Presenza (1952), e altre norme che differenziavano i diritti tra ebrei e arabi palestinesi, anche cittadini israeliani. Secondo Tikva Honig-Parnass, “si trattò di un vero regime di apartheid fondato sulla proprietà, che faceva dell’esclusione giuridica dei palestinesi il fondamento stesso dell’identità nazionale israeliana” (False Prophets of Peace, p. 61).

Dunque, la confisca delle terre non fu un effetto collaterale della guerra, ma una politica strutturale pianificata fin dal principio, che sancì l’impossibilità del ritorno e la trasformazione della Palestina in uno Stato ebraico etnicamente esclusivo.

Dunque, la nascita di Israele non fu un atto neutro o un fatto compiuto della storia: fu un’operazione militare e politica che diede forma a un regime etnico, costruito sulla negazione della presenza palestinese. La fondazione fu l’inizio di un esilio forzato, non la fine di un ritorno.

Bibliografia essenziale

Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld Publications, Oxford, 2006 (trad. it. La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma, 2008).

Ilan Pappé, Dieci miti su Israele, Fazi Editore, Roma, 2018.

Benny Morris, Righteous Victims. A History of the Zionist-Arab Conflict, 1881-1999, Vintage Books, New York, 2001 (trad. it. Vittime giuste, Mondadori, Milano, 2003).

Tikva Honig-Parnass, False Prophets of Peace: Liberal Zionism and the Struggle for Palestine, Haymarket Books, Chicago, 2011.

Ariel S. Levi di Gualdo, Erbe amare. Sionismo e pulizia etnica in Palestina, DeriveApprodi, Roma, 2022.

Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians: The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought, 1882-1948, Institute for Palestine Studies, Washington D.C., 1992.

Walid Khalidi (ed.), All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948, Institute for Palestine Studies, Washington D.C., 1992.

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