Il vertice dei paesi BRICS lancia all’ Occidente una sfida, competitiva ma pacifica e responsabile, per una nuova governance mondiale, multilaterale e basata su regole condivise. L’ Occidente e l’Europa in particolare saranno in grado di rispondere a questa sfida con proposte di cooperazione e senza la minaccia sistematica di ricorrere a guerre armate o finanziarie?
E la sinistra, o meglio le varie “sinistre” europee ed italiane, o i progressisti che dir si voglia, preferiranno ispirarsi a Lula o si faranno zavorrare da Starmer? Questo è il problema!

Di Carla Gentili
Il silenzio pressoché generalizzato dei media (con rare eccezioni, fra cui il quotidiano “il manifesto” di domenica 6 luglio) ci suggerisce di soffermarci sul vertice dei paesi BRICS tenutosi a Rio de Janeiro il 6 e7 luglio scorsi. Evento di grande rilievo, trattandosi di paesi che rappresentano all’incirca il 55% della popolazione e il 45 % del PIL mondiale (ben al di sopra dei paesi del G7), tra i quali potenze del calibro della Cina e della Russia, e grandi paesi come il Brasile, l’India, l’Iran , il Sudafrica, oltre ai membri successivamente aggiunti al gruppo originario e quelli in fase di amissione. Si può ben parlare di una “sfida” del “Sud globale” o, forse meglio, del
“non Occidente”, lanciata all’ Occidente a egemonia Usa, una sfida competitiva certo, ma anche costruttiva, per rivendicare, secondo un principio di realtà oltre che di accettabile equità, le buone ragioni di una guida multipolare del mondo, basata su regole condivise e sulla risoluzione pacifica dei conflitti, al fine di una fruizione meno diseguale delle risorse, delle tecnologie e della ricchezza globale.
L’eterogeneità politica e istituzionale dei paesi BRICS, più che un fattore di debolezza e di disunione – come si sottolinea a volte in un’ottica filo-occidentale pronta a stigmatizzarne la difformità rispetto al modello liberale dell’ Occidente capitalistico, cioè in altri termini la “discutibilita’ democratica” (ma questo vale pure per il Brasile, l’India, il Sudafrica? ci sarebbe da chiedersi) -, starebbe invece a garantire che non di una sfida ideologica o di civiltà si tratta, e neanche di sistema economico in senso stretto (del tipo: socialismo v.s. capitalismo, non immediatamente almeno), ma – al contrario- di una visione dinamica e lungimirante del futuro, e perciò ancorata a una saggezza pragmatica che vorrebbe poter costruire un nuovo ordine mondiale – più sostenibile per tutti – prima che quello vecchio -sempre più insostenibile e diseguale – travolga ogni cosa nel proprio crollo, mentre tenta disperatamente di conservarsi abbarbicandosi alle proprie “superbe ruine” a colpi di bombe e/o sanzioni o dazi esorbitanti.
Tre i punti principali emersi da questo vertice, secondo l’interessante analisi di Alessandro Volpi alla quale doverosamente rinviamo (pagina Facebook dell’ 8 luglio).
Il primo aspetto consiste nel fatto che “proprio i Brics stanno invocando il rispetto del diritto internazionale e del multilateralismo, arrivando persino a ‘difendere’ le istituzioni di Bretton Woods, le Nazioni Unite e il Wto. In altre parole, le principali realtà produttive del pianeta, che non hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, contribuito né alla definizione degli assetti successivi alla Seconda guerra mondiale, né alla stesura delle regole fondamentali del diritto internazionale e tantomeno alle istituzioni finanziarie globali, chiedono, ora, di fronte al disastro dell’Occidente, di rispettare quelle norme di convivenza collettiva e quelle istituzioni per evitare il collasso dell’umanità. Chiedono, certo, di avere un maggior peso all’Onu, nell’FMI e nella Banca Mondiale, ma non propongono il loro abbattimento, perché sono consapevoli dell’irresponsabilità delle classi dirigenti occidentali e dei loro possibili comportamenti sconsiderati di fronte a rotture degli equilibri maturati negli ultimi 80 anni. I Brics invocano quel multilateralismo che era stato concepito dalla cultura democratica e che ora le logiche di dominio hanno stravolto”. Quelli che Ursula von der Leyen e Trump considerano i “nuovi barbari”, insomma, “manifestano un chiaro sforzo per ristabilire la pace e la tenuta economica complessiva servendosi ancora delle forme istituzionali conosciute, per provare a gestire in modo graduale una trasformazione inevitabile nei fatti”.
Il secondo punto rilevante, emerso dai vertice, consiste nell’ ipotesi di una “progressiva sostituzione del dollaro non con un’unica moneta alternativa, ma con il ricorso alle ‘valute locali’: in pratica, di fronte al declino inesorabile del biglietto verde, i Brics pensano di aumentare, ancora una volta gradatamente, il volume degli scambi fatti con le monete dei singoli paesi, a cui restituire sovranità monetaria, utilizzando il coordinamento di una nuova Banca dello sviluppo, con sede a Shangai. Di nuovo, nessuna forzatura egemonica, sotto l’egida di un unico grande potere imperiale, ma un rafforzamento dei singoli Stati in una dialettica generale, dove, naturalmente, condurre un ridimensionamento ‘pacifico’ del dollaro”.
Il terzo aspetto, di più rapida attuazione, riguarda invece “un sistema di pagamenti autonomo che, in primis, impedisca la proliferazione delle sanzioni”. Sembra proprio che a Rio, il mondo nuovo, consapevole dello stato confusionale in cui versa l’Occidente, “abbia provato a tendergli una mano.” (A.Volpi).
Uno stato confusionale che Putin, nel suo intervento da remoto, ha sintetizzato come lo stato di profonda crisi in cui versa la “globalizzazione liberale” (da intendersi forse – come suggerisce Sandro Valentini nella sua pagina Facebook dell’8 luglio – in senso anche politico oltre che economico, finanziario e commerciale) propria dell’ “Occidente collettivo” a direzione unipolare.
Fondamentale, naturalmente, il ruolo svolto dalla Cina, il cui premier, Li Qiang, ha ribadito l’impegno del suo paese a lavorare insieme agli altri membri del gruppo per promuovere una governance internazionale più equa, efficace e inclusiva.
Tra i punti chiave del suo intervento: la tutela della pace e la risoluzione delle controversie attraverso mezzi pacifici; lo sviluppo economico come fondamento per affrontare le sfide globali; il dialogo tra civiltà e il rispetto della diversità culturale come strumento di progresso comune.
In questo quadro, ci sembra importante sottolineare l’apporto
del paese ospitante, il Brasile, il cui presidente, Lula, è come noto legato da solidi rapporti politici con la sinistra europea e italiana in particolare. Nel suo discorso Lula ha rivendicato con forza l’impegno per la pace, la cooperazione e la lotta contro la povertà e le diseguaglianze prodotte dal “liberal-capitalismo” e dalle sue scelte bellicistiche: netta la sua critica dell’aumento delle spese militari assunta dalla Nato, fortissima la condanna del genocidio perpetrato dal governo di Israele a Gaza, mentre per quanto riguarda la crisi ucraina Lula ha ribadito il sostegno al dialogo fra Mosca e Kiev per una soluzione rapida del conflitto, secondo gli auspici del gruppo degli “amici della pace ” incentrato su Cina e Brasile con l’appoggio dei paesi del Sud del mondo (da Luca Bagatin, Kulturjarm.it, 8 luglio).
C’è insomma da riflettere per un’Europa che voglia recuperare una pur relativa autonomia e ricongiungersi al meglio della sua storia e della sua cultura come “ponte” fra Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo. Ma c’è da riflettere anche
per una sinistra, cioè per un’area democratica, progressista e socialista, che voglia finalmente tornare a fare il proprio mestiere: lavorare per l’ affermarsi di condizioni politiche, economiche e sociali che consentano davvero uno sviluppo equo, solidale e sostenibile nel quadro di una coesistenza pacifica fra diversi, cioè nel “ripudio” della guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (articolo 11 della nostra Costituzione).
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