Lug 14, 2025 | Articoli

IL MODELLO POSSIBILE DEL ROJAVA

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Ci sono molti modi per uccidere la verità. Uno è quello che rovescia i fatti e le responsabilità, come in questi tempi di guerre e stermini fanno i media mainstream, e quelli italiani in modo più sguaiato. La pratica del doppio standard e della doppia morale non ha più remore né limiti, come da ultimo ci dimostrano le (mancate) reazioni all’aggressione all’Iran e alla destabilizzazione dell’intero Medio Oriente da parte di un governo e di un esercito israeliani abituati all’impunità e certi del sostegno a prescindere di Stati Uniti ed Unione europea.

Un altro modo è quello rimuovere le origini e le cause, impedendo così di comprendere ciò che accade, di cogliere gli snodi e le possibilità di sviluppi diversi. Il conflitto israelo-palestinese non inizia certo il 7 ottobre 2023 bensì 77 anni fa con la Nakba e l’esodo forzato dei palestinesi, proprio come quello russo-ucraino nasce ben prima del febbraio 2022 ma quanto meno dal 2014 o, prima, con la strategia di progressiva e aggressiva espansione a est da parte della Nato.

Un altro modo, infine, è quello di occultare le realtà scomode, e quelle ritenute in grado di indicare necessità e direzioni di un cambiamento politico e sociale, allo status quo. Quest’ultima non è solo una maniera subdola di ingannare le pubbliche opinioni, un tradimento di ogni deontologia. È un vero crimine: il crimine del silenzio.

La Storia dovrebbe averci insegnato che il motore per innescare processi di democrazia e progresso spesso si trova nelle galere. Basti pensare ai padri della Repubblica italiana, che hanno portato alla fine (a quanto pare non irreversibile) del fascismo, o a Nelson Mandela, grazie al quale si è arrivati all’abolizione dell’apartheid in Sudafrica.

Non è dunque paradossale che l’unico significativo segnale in controtendenza rispetto alle attuali spinte belliciste del complesso militar-industriale israelo-statunitense, delle lobby e governi europei e dell’alleanza atlantica sia venuto recentemente da un uomo privato della libertà: Abdullah Öcalan. Il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, sepolto vivo da oltre un quarto di secolo nelle prigioni turche, ha infatti promosso il disarmo del suo partito, la cessazione della lotta armata e la riapertura di un processo di pace.

Per rendersi conto dell’acuminata intelligenza di Öcalan è sufficiente leggere le sue opere, pubblicate in Italia dalle Edizioni Punto Rosso. In particolare, è la teorizzazione del Confederalismo democratico, in un suo libro (“Confederalismo democratico”) pubblicato nel 2013, a costituire un’innovativa proposta politica e sociale particolarmente preziosa nella notte buia che il mondo sta vivendo, a partire dallo sterminio in corso a Gaza e dal suprematismo aggressivo di Israele in tutta la regione, suscettibile persino di innescare un conflitto mondiale.

Come è rimasta nascosta e silenziata la svolta di pace voluta da Öcalan, così nessuno spazio di informazione ha trovato la recente sessione tenuta a Bruxelles dal Tribunale Permanente dei Popoli, fondato da Lelio Basso nel secolo scorso e guidato da Gianni Tognoni. I giudici, scelti tra figure autorevoli nel campo del diritto e di altre scienze sociali, dovevano esaminare le accuse di crimini contro l’umanità, di aggressione, pulizia etnica, uccisione di civili compiute dalla Turchia contro il Rojava, vale a dire l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria.

La sentenza finale, presentata al Parlamento europeo in marzo e a Roma il 17 giugno, ha affermato la responsabilità del presidente Recep Tayyip Erdoğan e di suoi ministri e generali per tali crimini.

Ciò che fa paura e impone il silenzio stampa, però, non è tanto la denuncia dei misfatti turchi, quanto il ‘modello’ politico e sociale di democrazia avanzata che il Rojava è stato capace di implementare sulla base dei principi del Confederalismo democratico. Arrivando così a costruire, nel concreto non solo sulla carta, un embrione di società basata sull’autogoverno, orientata al consenso, aperta a tutti i gruppi etnici, multiculturale, antimonopolistica, antipatriarcale, ecologista e fondata su un’economia alternativa al capitalismo. Un modello sostenuto e praticato nei territori e amministrazioni a guida kurda, nonostante le persecuzioni e le aggressioni belliche subite.

È questo modello possibile che fa paura al mainstream e ai governi occidentali e che, viceversa, impone a noi di parlarne per trarne stimoli, speranze, indicazioni, e per ribadire che il silenzio è un crimine interessato, mentre la verità è rivoluzionaria.

Pubblicato su Sinistra Sindacale il 13 Luglio 2025

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