di Roberto D’Agostino

Senza la minima autocritica su quanto detto negli ultimi anni a proposito dell’aggredito/aggressore, della certa vittoria dell’Ucraina sulla Russia, della necessità di continuare la guerra in difesa della democrazia e dei confini inviolabili, il mainstream nostrano oggi è tutto mobilitato a sostegno del trio Starmer/Macron/Mertz contro il perfido Trump alleato con Putin.
Che quel trio sia il traino europeo per la continuazione della guerra guerreggiata o in altre forme – nemico esistenziale, riarmo, leva obbligatoria – non sfiora i nostri commentatori e la maggior parte della nostra politica, compresa larga parte di PD e dintorni.
La prospettiva che costoro vedono per l’Europa è un suo rafforzamento e la capacità di “fare da sola” attraverso un grottesco aumento della spesa militare, quando già oggi i paesi europei spendono il doppio della Russia, ma mantenendo nello stesso tempo i rapporti di sudditanza reale con l’amico americano: la Von der Leyen celebra come momenti storici l’autonomia energetica dalla Russia, e l’acquisto del gas dagli USA a un prezzo molte volte superiore, l’aumento delle spese militari al 5% del PIL, con acquisto delle armi USA, l’imposizione di dazi di “solo” il 15% sulle merci europee.
Ci sono comunque settori della politica nostrana e del sovranismo europeo che stanno dalla parte di Trump: chi è per continuare la guerra in nome dell’orgoglio EU e chi è per la pace trumpiana in nome dell’interesse nazionale.
In questo quadro, come scrive Michele Prospero sull’Unità, “la sinistra impazzita, con il sabotaggio della “pace ingiusta”, lascia alla destra autoritaria la bandiera del negoziato dentro un rinnovato assetto globale. Una follia.”
Non c’è dubbio che nell’immediato non si possa che stare dalla parte di chi prospetta la fine della guerra in Ucraina su basi realistiche, sia in relazione a quanto è avvenuto sul campo, sia riconoscendo l’oggettività delle ragioni di uno Stato come la Russia che non vuole i missili Nato ai suoi confini. Ma bisogna avere la capacità di proporre una visione più generale e, direi, strategica, su quanto sta avvenendo.
Trump, amico di Meloni e Salvini, è un criminale: appoggia e copre il genocidio palestinese, ordina l’assassinio a freddo, senza prove, e al di fuori di qualsiasi norma di diritto, di supposti narcotrafficanti, si arroga il diritto di provocare cambiamenti di regime, anche ricorrendo alla forza militare, ordina misure contro i cittadini statunitensi non wasp che nessun regime autoritario si sognerebbe di proporre. È un criminale realista, forte con i deboli, tra cui annovera l’Europa, e accomodante con i forti. La guerra in Ucraina ha dimostrato che la Russia va annoverata tra i forti con cui è meglio fare affari che combattere.
Sempre per realismo, Trump con il suo documento sulle Strategie di Sicurezza Nazionale abbandona decenni di politica statunitense espansionistica in nome del “destino manifesto” USA arrivata fino a Biden ma non più economicamente e politicamente sostenibile, in favore di un consolidamento della sua presa sul continente americano e dintorni e del controllo sui paesi sui quali è in grado di esercitare una pressione politica ed economica.
Non è un cambiamento della politica imperiale, è un modo diverso di praticarla tenendo conto della realtà geopolitica che si è venuta consolidando negli ultimi vent’anni.
La proposta di un G5 – USA, Cina, Russia, India, Giappone – riflette una visione secondo la quale esistono potenze imperiali che domineranno il mondo spartendosi le diverse sfere di influenza.
Una grande differenza da quando gli USA pensavano di essere ormai diventati l’unica potenza mondiale e usavano qualsiasi mezzo per evitare l’emergere di qualcun altro, ma tutto all’interno del medesimo modello culturale in cui la forza, il dominio, il potere di chi ha su chi non ha debbono rimanere immutati seppure spartiti in modo diverso.
Il tentativo delle élite europee oggi dominanti di muoversi nella stessa logica, armiamoci di più così saremo più potenti anche noi e entreremo nel club imperiale, non solo è destinato a un fallimento che si riverserà sui popoli europei, ma va nella direzione esattamente opposta a quella che sarebbe necessaria per la costruzione di un mondo nuovo che potrebbe trovare in Europa il proprio incubatore.
La vocazione dell’Europa e della sua civiltà, conquistata al prezzo di un passato di guerra al proprio interno e di conquiste oppressive verso l’esterno, è quella di essere un aggregato politico postimperialista.
È questo l’enorme spazio vuoto che potrebbe e dovrebbe occupare un’Europa che da leader tirannico e coloniale sul resto del mondo, passando per una fase in cui l’irrilevanza subalterna alla potenza dominante era ampiamente compensata dalla comodità del vivere in una bolla protetta e opulenta, potrebbe diventare un modello altro rispetto alla competizione tra imperialismi.
Per questo la prima cosa che dovrebbe fare l’Europa – ma quale Europa? – è quella di rifiutare ogni logica di rafforzamento e competizione militare indirizzando tutti i propri sforzi a proporsi nel mondo futuro come punto di riferimento di progresso pacifico e solidale.
Per questo ben vengano gli ottocento miliardi di debito, ma non indirizzati alle armi, bensì al welfare, allo sviluppo di scienza e cultura, al sostegno di una reale transizione verde: e potrebbe non trovarsi da sola in questo ruolo.
Trump arruola la Cina tra i cinque paesi che dovrebbero far parte della sua visione neoimperialista, e naturalmente tutto l’occidente non ha dubbi in proposito; eppure basta leggere da fonte occidentale l’ultimo libro di Arlacchi – La Cina spiegata all’occidente – o, da fonte cinese, – L’arco dell’impero – l’ultimo libro di Liang Quiao, uno dei due colonnelli autori di “Guerra senza fine” e ascoltato consigliere di Xijinping, per capire quale formidabile alleato avrebbe l’Europa nella costruzione di un mondo postimperialista.
L’alleanza tra culture con radici millenarie, alla quale altre culture analoghe potrebbero aggregarsi, è la prospettiva strategica verso la quale muoversi.
Respingendo definitivamente la subalternità, derivante da una guerra perduta ottant’anni fa, alla cultura primitiva che caratterizza largamente gli Stati Uniti d’America, dove, a titolo di esempio nel 2023 ci sono stati circa 47.000 morti per armi da fuoco (tra i quali 27.000 suicidi). Cultura che impesta i nostri schermi televisivi con film americani in cui i protagonisti sono degli psicopatici che vendicano un torto subito (normalmente l’assassinio di un figlio/figlia/moglie da parte di altri psicopatici di cui evidentemente gli USA abbondano) attraverso una vendetta fai da te con il lieto fine che consiste nella strage generale dei cattivi. Mi scuso per lo sfogo digressivo!
In questo senso si può dire che l’attuale crisi dell’Europa, rivelandone le sue debolezze e la sua subalternità politica, è una crisi che può aprire straordinari orizzonti. Purché si ribaltino le politiche dell’attuale élite dirigente, vale a dire purché si presenti nel mercato della politica qualche formazione che cominci a delineare assetti nuovi e già largamente condivisi nella profonda coscienza di larga parte del popolo italiano ed europeo.
Ma qui bisognerebbe cominciare a declinare in modi più articolati la parola Europa, che in una visione di lungo periodo non può che andare dall’Atlantico agli Urali, ma che nel periodo medio breve è costretta dentro vicende storiche e culturali che ne differenziano profondamente l’articolazione possibile.
È davanti agli occhi come l’unione con la parte Est sia stata gravemente allontanata dalla postura bellicista e filoatlantica della dirigenza EU e dall’invenzione del nemico esistenziale: ci vorrà molto tempo per superare questa frattura, ma bisogna cominciare da subito.
Così come è evidente la faglia che divide l’Europa nordica e baltica, oltre che la Germania, paesi intrisi di protestantesimo, dai paesi mediterranei.
Andrebbe preso atto di questa situazione nella ri-organizzazione della struttura europea, invece che inseguire l’ingabbiamento del voto a maggioranza, propugnato dalla nostra sinistra di sistema, che penalizzerebbe ancora di più le specificità e gli interessi nazionali.
I duecento milioni di individui, dalla cultura strettamente intrecciata, che si affacciano sul Mediterraneo europeo (che hanno di fronte altri trecento milioni di individui che si affacciano sul Mediterraneo asiatico e africano), dovrebbero suggerire qualcosa a chi si appresta a immaginare una nuova Europa.

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