Ott 23, 2025 | Articoli

LA DIFFICILE STRADA DELL’INDIA

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il saggio indiano che il tempo dell’Occidente è un tempo lineare, mentre il tempo dei subalterni è un tempo in cui il passato non passa e il futuro non aspetta. Per parlare dell’India, dobbiamo tenere conto di questa concezione diversa del tempo. Le sorprese che, in questo vicinissimo presente — nelle scorse settimane — hanno visto l’India protagonista, vanno radicate in un passato che pesa e proiettate in un futuro impaziente. L’India è stata al centro dell’attenzione all’ultimo vertice della SCO, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che si è tenuto il primo settembre a Tianjin, in Cina. In quell’occasione, anche con la presenza del primo ministro indiano Modi, si è in qualche modo rovesciata l’immagine che negli ultimi anni si era costruita del grande Paese asiatico. È emersa, infatti, una connessione molto forte e visibile con la Cina, la Russia e gli altri Paesi membri di quell’organizzazione — una delle più rilevanti, insieme ai BRICS, nel panorama di quello che chiamiamo Sud Globale. Tutto questo sembra smentire quanto si era detto dell’India nel passato recente. E non senza fondamento, se guardiamo i fatti.

L’India ha avuto seri scontri di confine con la Cina e, soprattutto, da circa vent’anni, è stata individuata dagli Stati Uniti come il principale bastione anticinese in Asia. Questo investimento statunitense aveva prodotto il QUAD, una struttura che avrebbe dovuto formalizzare il quadrilatero strategico che riunisce Stati Uniti, Australia, Giappone e, appunto, l’India, e che era considerato lo strumento chiave (insieme a un riarmato Giappone) per riaffermare una supremazia occidentale nella regione, contenendo l’espansione cinese. Anche dal punto di vista economico, l’India è stata vista come un perno per accelerare il cosiddetto decoupling, cioè il disaccoppiamento produttivo tra Stati Uniti e Cina. È in questo contesto che l’India era celebrata come la più grande democrazia del mondo: un enorme subcontinente con una sua storia millenaria, ma con un approdo occidentale. E ogni volta che si parlava della disomogeneità dei BRICS, l’attenzione si concentrava proprio sull’India. Eppure, oggi, l’India assume un profilo diverso. Lo fa solo per ragioni tattiche, per convenienza commerciale, per una questione di dazi? Oppure ci sono motivi più profondi?

È qui che ritorna la riflessione iniziale. I dazi contano, anche perché dimostrano che alcuni interessi statunitensi non sono negoziabili, ma l’India agisce anche per spinte che hanno radici nel passato e si proiettano nel futuro che questa grande nazione immagina per sé. L’Occidente non ha capito, non può capire, quanto la lotta anticoloniale contro la Gran Bretagna sia centrale nell’identità indiana. È chiaro, chiarissimo, nella coscienza storica e intellettuale indiana, che la Rivoluzione d’Ottobre fu un punto di svolta decisivo per mettere in discussione il dominio britannico in Asia e quindi — alla fine della Seconda guerra mondiale — per ottenere l’indipendenza.

Esistono riflessioni molto chiare dei maggiori esponenti del movimento per l’indipendenza dell’India, a partire da Nehru, su questo punto. E da qui è partito un rapporto molto stretto dell’India con l’URSS, che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento (paradossalmente, questo rapporto fu anche una delle cause delle tensioni tra Cina e URSS) e spiega perché, ad esempio, l’esercito indiano abbia ancora oggi prevalentemente in uso dotazioni sovietiche e russe. Questa vicinanza storica, profondamente radicata, è alla base della dottrina all’origine dei BRICS e, più in generale, del Sud Globale: la cosiddetta dottrina Primakov. Quando la Russia si rende conto che il prezzo della collaborazione con l’Occidente è troppo alto, cambia direzione e guarda a Oriente. E quando guarda a Oriente, pensa certo alla Cina, ma anche all’India, proprio per via di questa lunga storia. Questo passato aiuta anche a capire scelte più recenti. Ad esempio: non si può comprendere perché l’India non abbia aderito alle sanzioni contro la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina — nonostante le tensioni con la Cina e le minacce degli Stati Uniti — se non si ha ben presente questi legami antichi. E poi c’è il futuro. Un futuro che, per citare di nuovo quel saggio, “non aspetta”. Quando parliamo della crisi del suprematismo occidentale, parliamo anche di questo: un Paese come l’India, oggi, non può più accettare di far parte di un’alleanza in cui, anche da partner privilegiato, resta subordinato alla potenza americana. Non lo accettano più le classi dirigenti. E non lo accetta più l’opinione pubblica. I Paesi del Sud Globale non possono più spiegare ai propri cittadini che esiste ancora una gerarchia di poteri dove l’Occidente comanda. Questo è un punto di non ritorno. Una frattura ormai aperta.

Occorre evitare un errore: quello di appiattire questi cambiamenti, enfatizzando le novità e il dinamismo del nuovo mondo che si muove, ma senza fare i conti con le contraddizioni. Ogni Paese, in questo processo, porta con sé la propria storia e le proprie difficoltà. E questo vale anche, e forse soprattutto, per l’India. Chi guida oggi l’India? È importante chiederselo, perché è significativo che una svolta così radicale sia stata portata avanti da un leader come Narendra Modi, a capo di una destra indiana fortemente nazionalista e, per la prima volta, con una connotazione fondamentalista religiosa marcata. Qui si apre un tema enorme, che interessa studiosi delle religioni, antropologi, storici, ma anche chi fa analisi politica. Perché il fondamentalismo induista, oggi fortemente visibile anche in forme violente, si sviluppa dall’unica grande religione politeista della modernità, in astratto meno esposta a questa deriva. Accanto al fondamentalismo islamico, ebraico e cristiano, oggi vediamo emergere un fondamentalismo induista.

Questo ci dice una cosa importante, che andrebbe studiata a fondo: la relazione tra religioni e globalizzazione può produrre, in contesti diversi, fenomeni simili, nella direzione di un identitarismo radicale, religioso ma anche politico. In India, questo fondamentalismo si manifesta in chiave anti-islamica, portando con sé un intreccio tra tensione religiosa e tensione geopolitica — soprattutto nei rapporti con il Pakistan. Da qui, un ulteriore elemento di contraddizione: questo orientamento e questi interessi geopolitici hanno portato a un rafforzamento dei rapporti tra India e Israele. Ma proprio per questo è ancora più significativo che, nella recente risoluzione della SCO — durissima contro Israele e contro il genocidio a Gaza — ci sia anche la firma dell’India. È un passaggio fortissimo, simbolicamente e politicamente. C’è infine un altro nodo importante: un’identità etnoreligiosa così marcata è particolarmente problematica in un Paese come l’India, che non è un corpo unitario, come la Cina, ma un mosaico complesso di religioni, etnie e culture politiche. In un contesto così frammentato, l’adozione di una visione identitaria rigida rischia di alimentare crisi interne molto profonde. Tutte queste contraddizioni non sono irrilevanti: possono pesare sul ruolo dell’India nei BRICS, possono incidere sull’evoluzione del Sud Globale. Possono perfino aprire la strada a una crisi interna che provochi un’inversione di rotta. Tuttavia, ciò che bisogna sottolineare è che i processi in atto — in India come negli altri Paesi del Sud Globale — sono talmente forti da influenzare essi stessi l’orientamento delle classi dirigenti. È un punto decisivo: il mondo nuovo che si sta formando condiziona anche chi lo governa. Ma questo ci impone un altro passaggio: comprendere come, dentro questi Paesi, e in particolare dentro l’India, la lotta sociale e politica interna si colleghi a questa dinamica internazionale.

Perché l’India è anche il Paese con il più grande movimento operaio del mondo, con sindacati enormi, con associazioni di agricoltori tra le più forti e avanzate del pianeta, anche sul tema della difesa della biodiversità e contro l’agricoltura delle multinazionali. Il governo Modi è stato visto da queste forze come un nemico. Un nemico delle tutele sociali, un nemico della laicità e della tradizione anticoloniale dell’India. Ecco, allora, la sfida che riguarda la sinistra indiana e quella di tutto il Sud Globale: come queste forze sapranno raccogliere la spinta del nuovo quadro internazionale per costruire nuove leadership, più coerenti con le speranze di cambiamento che i popoli portano con sé. Le contraddizioni sono molte. Ma proprio per questo, il futuro è più interessante.

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