di Stefano Fassina

Il vertice di Washington prosegue sulla linea definita ad Anchorage: Trump e Putin stanno ridefinendo un ordine multipolare. L’Ue è fuori
L’incontro alla Casa Bianca tra il presidente degli Stati Uniti, il presidente dell’Ucraina e i leader di Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Finlandia, oltre al segretario generale della NATO e alla presidente della Commissione europea, conferma la svolta positiva impostata al vertice di Ferragosto ad Anchorage tra il presidente Trump e il presidente Putin.
La realtà si impone: il Cremlino è attore primario nello scenario globale. È fallito il tentativo, condotto dall’establishment statunitense e dai vassalli europei dopo l’abbattimento del Muro, di ridimensionare la Russia a “potenza regionale”.
La hybris ideologica della fine della Storia, espresso dai vincitori della Guerra fredda, puntava a completare la dissoluzione dell’URSS in tante repubblichette irrilevanti, legate a una NATO “extra large”, euroasiatica, pronta alla sfida con la Cina.
Era un disegno irrealistico, come era irrealistico puntare alla sottomissione del pianeta all’ordine neoliberista di Washington. Ma soltanto un presidente estraneo al tradizionale circuito democratico-repubblicano poteva prenderne atto, affermarlo e reagire pragmaticamente. Come avrebbe potuto farlo un erede di quel Joe Biden accorso a Varsavia, a fine marzo 2022, a invocare il “regime change” a Mosca?
In tale quadro, è imbarazzante la lettura dei media mainstream occidentali. Sentenziano e sbandierano l’umiliazione subita in casa da Donald il “Taco” (colui che si rimangia le minacce fatte) con l’obiettivo di provocarne una reazione emotiva e far saltare l’intesa con Putin.
Ma Putin non ha vinto in Alaska. Semplicemente è evaporata in mondovisione la narrazione ufficiale degli ultimi 35 anni. Trump non ha perso: è riuscito a trovare una sponda, vedremo quanto effettiva, nel fronte dei BRICS e a rendere meno inevitabile la dipendenza della Russia dalla Cina.
Insomma, il summit in Alaska ha aperto potenzialmente la strada a un ordine multilaterale, nell’unico format possibile: ancorato alle grandi potenze. Quali? Come?
Domande decisive. Ma un punto sembra chiaro: Trump II, a differenza del primo e della presidenza Biden, iscrive la competizione tra primi attori dentro un quadro di collaborazione/collusione e di sfere di influenza, sostiene Stacie Goddart nel numero di maggio/giugno scorso di Foreign Affairs. Certo, la deriva può essere pericolosa, segnala il professore di scienza della politica al Wellesley College con puntuali richiami storici, ma è una risposta al disordine planetario determinato dal tramonto dell’insostenibile unilateralismo neoliberista made in USA.
al ritorno alla realtà, segue il segno geopolitico dell’accordo per la fine del conflitto in Ucraina: le sue cause ultime sono disinnescate, a cominciare dall’ingresso di Kiev nella NATO. Le garanzie di sicurezza sono sostanzialmente a carico degli Stati Ue, sebbene “gli USA aiuteranno in qualche modo”. Ma in un modo che il presidente Trump non definirebbe “NATO-like protection”.
Il resto, i confini degli oblast contesi, lo status istituzionale della lingua russa, la rimozione delle sanzioni a Mosca, lo scambio di ostaggi sono “dettagli”, rilevantissimi innanzitutto per riconoscere la resistenza e il sacrificio del popolo ucraino, ma “dettagli” nella prospettiva dell’ordine multilaterale da ricostruire. Sono affidati a un vertice trilaterale a breve.
I governi europei sarebbero dovuti essere protagonisti da subito di una strategia negoziale con la Russia: “senza una relazione vitale con il suo Oriente, l’Europa non potrà mai essere potenza globale”, ha scritto Massimo Cacciari.
Invece, sono stati così ottusi e servili da nominare, dopo due anni e mezzo di vile oltranzismo, con largo supporto bipartisan al Parlamento europeo gli ex capi di governo di Estonia e Lituania nelle posizioni più rilevanti per la politica estera di Bruxelles (la propagandista Kaja Kallas, Alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza, e l’operoso Andrius Kubilius alla Difesa) per negare, a priori e a prescindere, ogni possibilità di dialogo con Mosca e “sostenere l’Ucraina fino alla vittoria”.
cari “leader” della politica, della cultura, delle tecnostrutture, della comunicazione, nella stragrande maggioranza, ora, fuori tempo massimo, prendono atto del ritorno della Storia. Provano a darsi un ruolo.
Nel frattempo, i rispettivi popoli – l’universo del lavoro e le piccole imprese, innanzitutto – hanno pagato un prezzo alto. Salirà. Saranno ancora loro a pagare. Pagheranno con i tagli al welfare per coprire le maggiori spese militari promesse a Trump e per la onerosissima ricostruzione dell’Ucraina. Pagherebbero con l’aggravamento del già feroce dumping sociale e fiscale alimentato dal mercato unico se Kiev e gli altri Stati in lista d’attesa entrassero nell’Ue.
Le classi dirigenti europee avrebbero una via alternativa alla sicurezza collettiva sulla quale impegnarsi e tornare in gioco. Dati gli interessi in campo, le radici cristiane condivise con l’universo russo e la collocazione geografica, sarebbero i meglio attrezzati per farlo. È il “modello Helsinki” invocato anche da Papa Leone XIV durante il Giubileo della Gioventù, l’unico impianto per tenere in equilibrio un pianeta multipolare. Ma perseguirlo richiederebbe un’alternativa di interpretazione della fase e altri interessi sociali di riferimento. Insomma, altre classi dirigenti.
PS: la visita e la postura dei leader europei a Washington illustrano efficacemente perché non poteva esserci negoziato sui dazi.
Fonte: Ilsussididario.net, 19 Agosto 2025

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