𝙊𝙫𝙫𝙚𝙧𝙤: 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙡’𝙄𝙩𝙖𝙡𝙞𝙖 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙖 𝙯𝙞𝙩𝙩𝙞𝙨𝙘𝙚 𝙘𝙝𝙞 𝙙𝙞𝙨𝙨𝙚𝙣𝙩𝙚

Di Linda Santilli

Negli ultimi anni, da quando la guerra in Ucraina è diventata la nuova religione civile dell’Occidente e quella in Palestina il suo tabù più scomodo, abbiamo imparato che in Italia si può dire tutto, c’è libertà d’espressione purché sia espressione di consenso. La libertà insomma è libera di chiuderti la bocca, gettandoti in una centrifuga di parole tranello, che mescola e fonde giudizi e pregiudizi, da cui esci putiniano antisemita filohamas complottista. Così, tutto d’un fiato.
L’annullamento del concerto di Valery Gergiev a Caserta per “ragioni etiche” è l’ultima commedia dell’assurdo. Direttore d’orchestra russo, colpevole di non aver condannato abbastanza Putin, è stato cancellato mentre stava per suonare Ravel e Čajkovskij che, a quanto pare, è diventato “propagandista retroattivo” del Cremlino.
La scena sarebbe grottesca, se non fosse istruttiva: mentre si pretende dal musicista russo la dissociazione pubblica dal suo governo, nessuno chiede nulla all’israeliano Daniel Oren, pur legato a un governo che sta devastando Gaza con bombe al fosforo. Anzi, guai a farlo. Sarebbe “antisemitismo”. Così funziona oggi la nuova neolingua: i concetti si svuotano, le parole si rovesciano.
Come scriveva George Orwell, la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Il pensiero unico funziona quando viene introiettato come buonsenso, e chi osa metterlo in discussione è fuori dalla civiltà. Ovviamente la civiltà Occidentale, quella superiore a tutte le altre. Per meglio dire, la unica e sola che meriti questo nome.
E in questa civiltà il dissenso è una malattia da curare
Chi osa parlare di diplomazia o criticare le narrazioni ufficiali viene trattato come un virus da isolare. Prendete Elena Basile, ex ambasciatrice, autrice di saggi lucidi e appassionati. Invitata (e poi dimenticata) in talk show dove le analisi geopolitiche devono restare entro il perimetro NATO. Ha osato dire che la guerra va capita, non solo condannata. Risultato: bollata come “filoputiniana”, “ambigua”, “pericolosa”. L’unico pericolo reale, in effetti, era per la narrazione bellica, che lei incrinava.
Chef Rubio, cuoco anomalo e testardo, è stato invece cancellato dai social come si elimina un insetto fastidioso. Ha detto troppo forte: “genocidio”, “Palestina occupata”, “responsabilità dell’Occidente”, “Governo israeliano terrorista”. Per lui si è scomodata l’Antiterrorismo, mentre le redazioni dei giornali che si sentono portatori della superiorità morale dell’Occidente non sono capaci di fare i conti con un concetto elementare: ogni vita vale, anche se nasce a Rafah e non a Tel Aviv.
Foucault ci aveva avvisato: la verità non è mai fuori dal potere. Le società moderne non usano più la censura per silenziare. Usano la selezione. La visibilità è concessa solo ai discorsi compatibili con il sistema di potere. Il resto è “estremismo”, “fake news”, “deriva”. Non serve vietare: basta spegnere la luce.
Mentre si sventola la bandiera ucraina nei palazzi istituzionali, il massacro quotidiano dei palestinesi scivola via come un fastidio marginale. Le stesse testate che hanno dato 15 pagine alla diga di Kakhovka distrutta, ne dedicano mezza al bombardamento di un ospedale a Gaza. I civili vanno pianti, certo, ma solo se sono i nostri civili.
Non è più questione di opinioni. È un’architettura del discorso, dove esistono parole legittime e parole tossiche. Il massacro russo è “crimine di guerra”. Quello israeliano è “azione militare mirata”. Hamas è “terrorismo puro”. Azov è “battaglione contestato”. Il tutto dentro un racconto pulito, impacchettato, facilmente digeribile. E funziona.
La società repressiva moderna non sopprime il dissenso con la forza, ma lo neutralizza integrandolo o ridicolizzandolo. Lo sguardo di Marcuse vale oggi più che mai. Il pensiero critico viene trasformato in una caricatura, accettabile solo se innocuo, mai se radicale. Se chiedi la pace, sei debole. Se critichi l’Occidente, sei nemico. Se parli dei bambini palestinesi sterminati dal disegno terroristico di Israele che vuole eliminare un popolo, sei antisemita.
Nel frattempo, le reti televisive invitano ogni sera esperti “indipendenti” a senso unico: ex generali NATO, editorialisti atlantisti, sedicenti fact-checker che smentiscono la realtà con la velocità di un algoritmo. Intellettuali critici, giornalisti non allineati, esperti fuori dalla comfort zone, non entrano mai in studio. O se entrano, è per fare da avversari dialettici in un processo pubblico.
I talk show funzionano come tribunali, solo che manca l’avvocato difensore. Così Ginevra Bompiani viene interrotta a ripetizione, Elena Basile espulsa, Rubio oscurato, le fonti alternative demonizzate. E la platea applaude, contenta di non dover pensare.
È questo il paradosso: in nome della “lotta alle fake news”, la verità si fa unica. In nome della “libertà di stampa”, si censura chi stampa liberamente. In nome della “pace”, si zittisce chi la invoca.
Non è censura. È conformismo organizzato.
Alla fine, non è nemmeno questione di complotti. È una logica sistemica. I media italiani, come buona parte di quelli occidentali, sono ormai dispositivi di filtraggio culturale. Se dici che l’Italia è succube della NATO, sei “no vax”. Se citi Foucault, sei un anarcoide. Se usi la parola “apartheid” per Israele, sei un provocatore. Se parli di negoziati in Ucraina, sei “contro la democrazia”.
Non è repressione brutale, è normalizzazione del consenso. Non ti mettono in galera. Ti rendono invisibile. Non ti tappano la bocca: svuotano di senso le tue parole.
Eppure, tornando a Orwell, “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E oggi la verità è un dovere.
Perché prima o poi, anche il silenzio fa rumore.
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